top of page
Jlc news - blu.png

La produttività dell’Italia tra crescita e salari

Nel cuore del dibattito sulla competitività italiana si staglia un tema ormai strutturale: la stagnazione della produttività. Se da un lato il PIL del Paese mostra segni di recupero con variazioni trimestrali positive, dall’altro la crescita reale resta modesta se confrontata con quella dei principali partner europei. Una delle cause profonde risiede nella debole dinamica della produttività del lavoro e del capitale, che da oltre vent’anni penalizza il sistema economico nazionale.

Secondo gli ultimi dati del Centro Studi di Confindustria, la produttività totale dei fattori (TFP) in Italia è aumentata appena dello 0,2% annuo medio negli ultimi 25 anni, a fronte di una crescita superiore all’1% registrata in Germania, Francia e nei Paesi Bassi. Il divario risulta ancora più marcato nel comparto dei servizi, dove l’innovazione tecnologica e l’organizzazione del lavoro sono rimaste in ritardo rispetto agli standard OCSE.

Tale fenomeno si riflette in modo diretto sulla crescita del PIL potenziale e sulla capacità di distribuzione della ricchezza. Senza un incremento della produttività, il sistema non è in grado di sostenere aumenti salariali reali né di attivare un circolo virtuoso di investimenti, occupazione e domanda interna. Il risultato è un Paese che cresce poco, distribuisce ancora meno e accumula tensioni sociali.

Le cause della stagnazione sono molteplici. In primis, il nanismo industriale: oltre il 94% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti, un fattore che limita l’adozione di tecnologie avanzate, l’accesso ai mercati internazionali e l’efficienza gestionale. A ciò si aggiungono la scarsa digitalizzazione di molti comparti produttivi, una formazione manageriale ancora tradizionale, e una bassa intensità di capitale umano qualificato.

Un altro elemento chiave è la limitata mobilità del lavoro. La rigidità del mercato del lavoro italiano, unita a barriere geografiche, culturali e infrastrutturali, impedisce un adeguato matching tra domanda e offerta di competenze. Il fenomeno del “brain drain”, con migliaia di giovani qualificati che emigrano verso economie più dinamiche, contribuisce a prosciugare il potenziale innovativo interno.

Sul piano settoriale, il manifatturiero ha mostrato una certa resilienza, soprattutto grazie alla spinta dell’export e alla specializzazione in nicchie ad alto valore aggiunto (meccanica, farmaceutica, moda tecnica). Tuttavia, i settori ad alta intensità di lavoro, come turismo, commercio al dettaglio, ristorazione e logistica, faticano a modernizzarsi. In questi ambiti la produttività resta compressa da modelli operativi poco scalabili, uso estensivo del lavoro precario e bassi investimenti in formazione.

Il PNRR, con i suoi assi su digitalizzazione, transizione ecologica e riforma della PA, offre uno strumento importante per invertire la rotta. Ma i fondi europei, se non accompagnati da riforme strutturali e da un vero salto culturale nella governance delle imprese, rischiano di produrre benefici solo temporanei.

Serve un’agenda industriale coerente, che premi la crescita dimensionale delle imprese, favorisca le aggregazioni, stimoli la diffusione del capitale umano qualificato e crei un ambiente favorevole all’innovazione. In questo senso, politiche fiscali mirate (come un super-ammortamento permanente per gli investimenti 4.0), incentivi all’assunzione di figure tecniche e la revisione del sistema di istruzione tecnico-professionale potrebbero offrire un impulso concreto.

Ma serve anche un salto qualitativo nella contrattazione collettiva: spostare il focus dal salario fisso alla produttività di risultato, ancorare parte della retribuzione a obiettivi condivisi, introdurre premi di partecipazione e welfare aziendale diffuso. Un nuovo patto tra lavoratori e datori di lavoro, in cui la valorizzazione del capitale umano diventa il motore della competitività.

Senza una strategia che aggredisca in modo organico il nodo della produttività, l’Italia continuerà a navigare tra fasi di crescita debole, crisi cicliche e diseguaglianze crescenti. Una modernizzazione del modello economico nazionale non è più rimandabile: è il presupposto essenziale per garantire una crescita duratura, sostenibile e inclusiva.

Comentários


Le ultime notizie

bottom of page