Secondo l’Istat, a fine 2020, circa il 32% delle imprese con almeno 3 addetti considerava a rischio le proprie possibilità di sopravvivenza nei primi sei mesi del 2021; il 62% prevedeva ricavi in diminuzione e meno del 20% riteneva di non avere subito conseguenze o di aver tratto beneficio dalla crisi. La crisi ha colpito soprattutto le unità di piccola e piccolissima dimensione: a fine 2020 si dichiaravano a rischio oltre il 33% delle microimprese (3-9 addetti), il 27% di quelle piccole (10-49 addetti), il 15% delle medie (50-249 addetti) e l’11% delle grandi (250+ addetti). Mentre chi opera sui mercati esteri resiste meglio alla crisi. In particolare nel settore manifatturiero, forme di internazionalizzazione avanzate (esportazione su scala globale, appartenenza a gruppi multinazionali) si associano a minori rischi di chiusura, problemi di liquidità, di domanda o di approvvigionamento. In questo contesto, risalta la tenuta decisamente maggiore delle imprese appartenenti a gruppi multinazionali – in particolare a controllo estero – che solo in circa il 6% dei casi segnalano una situazione di rischio operativo e nel 9% problemi di liquidità. Lo shock ha accentuato il divario tra i percorsi di sviluppo delle imprese: quelle che prima della crisi risultavano più dinamiche (sulla base di misure relative agli investimenti in organizzazione, in capitale umano e in tecnologia) sembrano reagire meglio alla crisi in atto, attraverso la riorganizzazione produttiva, l’introduzione di nuovi prodotti, l’avvio di nuove relazioni con altri soggetti, l’intensificazione della transizione digitale. Emerge con evidenza che solo l’11% delle imprese ha caratteristiche che le definiscono a elevata solidità, ma esse rappresentano quasi la metà dell’occupazione e oltre due terzi del valore aggiunto complessivi. Mentre, il 45% delle imprese con almeno 3 addetti risulta in una condizione di “rischio strutturale” a fronte del proseguire o ripetersi di condizioni fortemente sfavorevoli. Si tratta in massima parte di imprese con dimensioni molto ridotte, tanto che rappresentano circa il 20% dell’occupazione e appena il 7% del valore aggiunto complessivo delle attività considerate nell’analisi. Nelle medie e grandi unità produttive si registra un’incidenza elevata di imprese solide (65 e 85%) a fronte di una presenza piuttosto marginale di unità fragili e a rischio strutturale. Invece, nell’industria, l’incidenza delle imprese resistenti e di quelle solide è relativamente bassa (circa il 35% nell’insieme delle due categorie), ma corrisponde a un segmento con importanza economica molto rilevante (72,0% dell’occupazione e 87,2% del valore aggiunto complessivi del comparto) a conferma della forte polarizzazione per classi dimensionali anche in questo settore. Le condizioni di rischio strutturale e fragilità appaiono pervasive nelle attività del terziario in cui sono a rischio quasi la metà delle unità, le quali rappresentano però poco più di un quarto dell’occupazione e circa il 10% del valore aggiunto. Come nell’industria, l’incidenza delle imprese resistenti e di quelle solide appare minoritaria in termini di numerosità (28%) ma molto rilevante dal punto di vista del peso economico, con circa il 60% degli occupati e più dell’80% del valore aggiunto. Tra i settori del terziario, appaiono particolarmente in difficoltà le imprese operanti nelle attività a minore intensità di conoscenza: il commercio al dettaglio, il trasporto terrestre, l’alloggio e la ristorazione e, all’interno dei servizi alla persona, l’assistenza sociale non residenziale, le attività sportive, la riparazione di computer e gli altri servizi alla persona. All’opposto, fra i settori con elevata incidenza di unità resistenti e solide (tra il 75 e il 90%) spiccano attività infrastrutturali, di business services e a elevato contenuto di conoscenza, quali i trasporti marittimi e aerei, il software e consulenza informatica, le attività professionali e la fornitura di personale.
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