top of page

Un'Europa diversa

  • Immagine del redattore: Luca Baj
    Luca Baj
  • 3 giorni fa
  • Tempo di lettura: 2 min

ree

Paolo Gentiloni, già ministro degli Esteri, presidente del Consiglio, commissario europeo all’Economia

Giorgio Gori, europarlamentare e vicepresidente Commissione per l'industria, la ricerca e l'energia


La guerra in Ucraina è divenuta uno “stress test” unionale: ha misurato gli strumenti PESC e la frizione tra sovranità nazionali e interessi comuni. Non è crisi periferica ma minaccia prossima al confine esterno. La posta è oggi il passaggio dall’UE mercato‑regolatore all’UE soggetto strategico con capacità, governance e finanza condivise.

Il primo pilastro della risposta è normativo. Le misure restrittive contro soggetti e settori russi si fondano sugli articoli 29 TUE e 215 TFUE: decisione PESC del Consiglio e, in sequenza, regolamento direttamente applicabile. Ne è scaturito un regime sanzionatorio, con clausole antielusione. In parallelo opera l’European Peace Facility, strumento extra‑bilancio che sostiene le forniture militari a Kiev, la cui effettività è condizionata dall’unanimità ex articolo 31 TUE.

Il secondo pilastro è diplomatico. L’ipotesi di un cessate il fuoco “sulle linee del contatto” presuppone meccanismi di verifica, missioni civili e condizionalità finanziarie. Il diritto primario offre basi – dall’articolo 42 TUE alla clausola di assistenza reciproca – ma l’unanimità in PESC frena l’iniziativa; da qui l’esigenza di estendere in modo mirato la maggioranza qualificata nei Trattati.

Il terzo pilastro è finanziario. L’immobilizzazione degli attivi statali russi non equivale a confisca: l’opzione più solida è l’uso dei proventi maturati su tali attivi a sostegno del bilancio ucraino e della difesa, riducendo l’impatto sulle immunità. Serve una base normativa europea chiara, garanzie per custodi e intermediari, criteri di riparto e un regime di responsabilità che minimizzi il contenzioso. È “federalismo pragmatico”: interventi dove l’urgenza lo impone, senza attendere riforme di Trattato.

La dimensione tecnologica impone un salto industriale. Il conflitto è C4ISR‑centrico: droni, sensori, guerra elettronica, intelligenza artificiale. Occorre una base industriale europea con standard di interoperabilità, contratti quadro rapidi e catene per semiconduttori, fibra e componentistica dual‑use, incentivi alla capacità produttiva. Senza questo, la deterrenza resta intermittente.

La discussione si intreccia con competitività e transizione climatica. Il Green Deal non è una scadenza ma un corpus di politiche che richiede risorse e accompagnamento. Il nodo è la capacità fiscale comune: risorse proprie stabili e, se necessario, debito con garanzia dell’Unione per obiettivi europei. Il precedente di Next Generation EU dimostra la praticabilità di simili costruzioni con condizionalità.

L’allargamento verso Est amplifica la sfida di governance. L’integrazione graduale dell’Ucraina può seguire un “phasing‑in”: partecipazione ai lavori del Consiglio senza veto, accesso selettivo a programmi e clausole di sospensione. Ma un’Unione a trentacinque con la stessa grammatica decisionale non è sostenibile; occorre riformare regole di voto in segmenti PESC e di politica industriale e rafforzare il bilancio pluriennale.

Il versante domestico e transatlantico. In vari Stati membri permane un deficit di consenso informato sulla spesa per la difesa, mentre nei Paesi vicini al fronte prevale la logica della mobilitazione civile. Serve rendicontazione dei risultati per collegare sicurezza esterna, prezzi dell’energia e tutela del modello sociale europeo. All’esterno, la dipendenza dalla NATO resta essenziale, ma l’asimmetria con Washington si riduce solo se l’UE sviluppa capacità autonome e compatibili con l’Alleanza. La posta in gioco è poter far valere interessi europei in uno spazio strategico che non attende i tempi lunghi dell’unanimità.


Commenti


Le ultime notizie

bottom of page