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Inflazione USA ad aprile 2025: il CPI rallenta al 2,3%, sotto le attese. Mercati cauti, Fed attende conferme

Nel mese di aprile 2025, l'inflazione negli Stati Uniti ha segnato un rallentamento superiore alle attese degli analisti, generando reazioni miste tra investitori, economisti e osservatori della politica monetaria. Secondo quanto diffuso dal Bureau of Labor Statistics, l'indice dei prezzi al consumo (CPI) è salito del 2,3% su base annua, rispetto al +3,2% registrato a marzo. Si tratta del livello più basso da oltre due anni, inferiore alle previsioni medie del mercato, che stimavano un incremento del 2,4%.


Su base mensile, sia l'indice generale che quello “core” – depurato delle componenti più volatili come energia e alimentari – sono cresciuti dello 0,2%, anche in questo caso al di sotto delle attese di +0,3%. Il CPI core ha mantenuto un ritmo annualizzato del 2,8%, evidenziando una lieve decelerazione rispetto ai mesi precedenti ma restando ancora lontano dall’obiettivo di inflazione del 2% fissato dalla Federal Reserve.


All’interno del paniere, l’andamento dei prezzi ha mostrato segnali contrastanti. Da un lato, si sono registrati cali nei settori legati ai consumi durevoli e ai trasporti: i prezzi delle auto usate sono diminuiti dello 0,5%, mentre le tariffe aeree hanno subito un ribasso significativo del 2,8%. Dall’altro lato, i servizi – comparto notoriamente più rigido alla discesa dei prezzi – continuano a registrare aumenti, in particolare per quanto riguarda i costi degli affitti. I cosiddetti “owner's equivalent rent” (OER), ovvero l’affitto imputato per i proprietari di casa, hanno mostrato un incremento dello 0,4% su base mensile, confermandosi una delle componenti più resistenti all’inversione di tendenza.


Nonostante l’arretramento dei principali indici inflazionistici, la reazione dei mercati è stata contenuta. I futures sull’S&P 500 hanno mostrato solo leggere variazioni, mantenendo i livelli elevati raggiunti dopo il rally innescato dai recenti segnali di distensione tra Stati Uniti e Cina sul fronte commerciale. Più evidente è stato il movimento sul mercato obbligazionario, dove i rendimenti dei Treasury a 10 anni sono saliti al 4,39%, riflettendo un atteggiamento di cautela da parte degli investitori, preoccupati per eventuali pressioni inflazionistiche future alimentate dalle politiche fiscali espansive preannunciate dall’amministrazione repubblicana.


Anche le aspettative relative alla politica monetaria della Federal Reserve si sono mostrate stabili. Prima della pubblicazione dei dati, i mercati attribuivano una probabilità del 39% a un taglio dei tassi nella riunione del FOMC del 30 luglio. Dopo i dati sul CPI, tale probabilità non è sostanzialmente cambiata. Le attese implicite nei futures sui Fed Funds indicano due possibili tagli dei tassi nel corso del 2025, in netto calo rispetto alle quattro riduzioni che erano state scontate a inizio anno.


Jerome Powell, presidente della Fed, ha più volte ribadito la volontà di non procedere a riduzioni del costo del denaro fino a quando non sarà disponibile una sequenza solida di dati che confermi il ritorno dell’inflazione verso il target. Negli ultimi mesi, la banca centrale statunitense ha mantenuto il tasso di riferimento nel range 5,25%-5,50%, sottolineando l’intenzione di non abbassare la guardia finché le pressioni sui prezzi non si saranno stabilmente attenuate.


Sul fronte macroeconomico, il rallentamento dell’inflazione è stato letto da alcuni economisti come un segnale positivo di raffreddamento della domanda interna. Tuttavia, restano aperte numerose incognite: la tenuta del mercato del lavoro, la dinamica dei salari, l’evoluzione del prezzo del petrolio e la potenziale estensione di misure tariffarie sulle importazioni, tutte variabili che potrebbero riattivare dinamiche inflazionistiche nei prossimi trimestri.


Un ulteriore elemento da considerare è l’effetto delle politiche fiscali annunciate in vista delle elezioni presidenziali. L’ipotesi di nuovi tagli alle imposte, unita a un aumento della spesa pubblica in infrastrutture e difesa, potrebbe generare stimoli all’economia che andrebbero a impattare sulle scelte di politica monetaria della Fed, costretta a calibrare con attenzione ogni futura decisione per evitare un surriscaldamento dei prezzi o, al contrario, un eccessivo rallentamento della crescita.

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