Trump e la svalutazione del dollaro: strategie e rischi per l’egemonia valutaria degli Stati Uniti
- piscitellidaniel
- 18 apr
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L’egemonia globale del dollaro come valuta di riserva è da decenni una delle basi fondamentali dell’economia americana e del sistema finanziario internazionale. Tuttavia, le recenti dichiarazioni e posizioni dell’ex presidente Donald Trump, ora nuovamente candidato alla Casa Bianca, riaprono un dibattito che scuote i mercati e gli analisti: l’ipotesi concreta di una politica di svalutazione pilotata del dollaro. L’obiettivo dichiarato da Trump e dai suoi consiglieri economici sarebbe quello di ridurre il deficit commerciale cronico degli Stati Uniti, indebolendo il valore della valuta per favorire le esportazioni e limitare le importazioni.
Alla base della strategia vi è la convinzione che un dollaro troppo forte penalizzi la competitività delle imprese statunitensi, soprattutto nel settore manifatturiero, e favorisca le economie concorrenti come la Cina e l’Unione Europea. L'idea, che trova una sponda politica nella retorica protezionistica tipica del trumpismo, si tradurrebbe in interventi diretti o indiretti sul mercato valutario. Tra le opzioni ipotizzate figurano l’intervento del Tesoro attraverso acquisti di valuta estera, il coordinamento con la Federal Reserve per una politica monetaria più accomodante, e addirittura l’introduzione di meccanismi di controllo dei capitali in entrata.
Una simile impostazione rompe con decenni di politica monetaria statunitense basata sull’indipendenza della Federal Reserve e sul libero fluttuare del dollaro. La semplice enunciazione di una volontà presidenziale di influire sul cambio ha già creato tensioni con i vertici della Fed, oggi guidata da Jerome Powell, il cui mandato scade nel 2026. Trump, secondo indiscrezioni confermate da fonti del Congresso, starebbe valutando la possibilità di sostituire Powell in caso di vittoria, proprio per garantire l’allineamento della politica monetaria con quella fiscale ed estera della futura amministrazione.
L’attuazione di una svalutazione del dollaro, però, non è priva di conseguenze complesse. Da un lato, potrebbe effettivamente dare sollievo all’industria americana, sostenere l’occupazione in alcuni settori e ridurre il disavanzo commerciale con paesi come la Cina e il Messico. Dall’altro, un dollaro più debole rende più costose le importazioni e potrebbe alimentare l’inflazione interna in un contesto dove il costo della vita è già una delle principali preoccupazioni dell’elettorato. Inoltre, il deprezzamento della valuta metterebbe sotto pressione il mercato del debito americano: i titoli del Tesoro, detenuti in larga parte da investitori esteri, vedrebbero ridotto il loro valore reale, e questo potrebbe indurre paesi come Giappone, Cina e Arabia Saudita a ridurre la loro esposizione verso il debito USA.
Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalla stabilità del sistema finanziario internazionale. Il dollaro è attualmente utilizzato in circa l’88% delle transazioni valutarie globali e rappresenta il 58% delle riserve valutarie mondiali. Una sua svalutazione sistemica rischia di innescare turbolenze sui mercati emergenti, che detengono ingenti debiti denominati in dollari, e di spingere altre economie a rafforzare le proprie valute o a creare blocchi valutari alternativi. È in questo contesto che si inserisce la crescente influenza dello yuan cinese, già utilizzato in molti scambi tra Pechino e i paesi africani, latinoamericani e mediorientali. Alcuni osservatori vedono nel piano di Trump un boomerang geopolitico, che potrebbe accelerare la transizione verso un sistema multipolare in cui il dollaro non è più dominante.
La proposta di svalutazione è inoltre connessa alla visione strategica più ampia dell’economia americana secondo l’impianto ideologico del trumpismo: rilocalizzazione delle catene di produzione, aumento dell’autonomia energetica, decarbonizzazione graduale, protezione dell’industria nazionale attraverso barriere doganali e disincentivi all’offshoring. In questa ottica, il valore della moneta non è più solo uno strumento macroeconomico neutro, ma una leva diretta per orientare le relazioni commerciali internazionali. Il Dipartimento del Tesoro, secondo fonti interne, starebbe già lavorando a uno schema di interventi possibili, da presentare in caso di elezione del presidente repubblicano. Le implicazioni pratiche di tali politiche, tuttavia, restano incerte e dipenderanno fortemente dalla reazione degli attori internazionali e dal comportamento della Federal Reserve, che ha sempre difeso l’indipendenza operativa dalla Casa Bianca.
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