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La tenuta dei conti pubblici non basta: serve sostenere imprese e investimenti per evitare una stagnazione strutturale

Il quadro economico italiano mostra segnali di stabilità finanziaria ma continua a soffrire di una crescita debole e disomogenea. La tenuta dei conti pubblici, pur rappresentando un risultato importante in un contesto internazionale incerto, non appare più sufficiente per garantire uno sviluppo sostenuto e competitivo. Economisti e rappresentanti del mondo produttivo sottolineano che, senza una politica industriale orientata agli investimenti e al rafforzamento del sistema produttivo, il Paese rischia di rimanere intrappolato in una fase di stagnazione prolungata, aggravata dal rallentamento europeo e dalla perdita di competitività strutturale rispetto ai principali partner dell’Unione.


Il governo rivendica il risultato ottenuto sul fronte del bilancio, con un deficit contenuto e una gestione del debito pubblico giudicata “prudente” dalle principali istituzioni europee. La capacità di mantenere i conti in ordine, nonostante la pressione dell’inflazione e il costo crescente del credito, è vista come un segnale positivo sui mercati. Tuttavia, gli stessi indicatori evidenziano un rallentamento della domanda interna, una contrazione degli investimenti privati e un calo della produttività industriale che rischiano di compromettere la tenuta dell’economia reale. L’Italia, pur avendo registrato una ripresa significativa dopo la crisi pandemica, si trova ora in una fase di consolidamento fragile, in cui la stabilità finanziaria convive con una crescita anemica e disomogenea tra i settori.


Il nodo principale riguarda il rilancio degli investimenti. Dopo l’impulso del PNRR, molti progetti di innovazione e infrastrutturazione hanno subito ritardi, e l’effetto moltiplicatore degli investimenti pubblici non si è ancora pienamente trasmesso al sistema produttivo. Le imprese, specie le piccole e medie, continuano a fare i conti con un costo del denaro elevato, una burocrazia complessa e una domanda incerta. Le difficoltà di accesso al credito, aggravate dal rallentamento del settore bancario, frenano la capacità di investimento anche in ambiti strategici come la digitalizzazione, la sostenibilità ambientale e la transizione energetica. Le associazioni industriali chiedono quindi un cambio di passo, con misure mirate a sostenere la competitività e la produttività, anche attraverso incentivi fiscali stabili e una programmazione pluriennale più prevedibile.


Sul piano macroeconomico, gli analisti evidenziano che l’Italia si trova in una posizione di equilibrio precario: da un lato la necessità di mantenere i conti pubblici sotto controllo per rispettare le nuove regole europee di bilancio, dall’altro la necessità di stimolare la crescita attraverso investimenti pubblici e privati. Le previsioni di crescita per il 2025 oscillano tra lo 0,7 e l’1%, una soglia che non consente un miglioramento significativo del rapporto debito/PIL. In assenza di un’accelerazione degli investimenti, il rischio è quello di un rallentamento strutturale che riduca ulteriormente il margine di manovra fiscale e limiti la capacità del Paese di reagire a shock esterni.


Un ruolo chiave spetta alla politica industriale. Negli ultimi anni l’Italia ha registrato un progressivo disallineamento rispetto ai Paesi più avanzati nella transizione digitale e nella riconversione energetica. I programmi di sostegno all’innovazione, come Industria 4.0 e Transizione 5.0, hanno prodotto risultati importanti ma non ancora sistemici. La frammentazione delle misure, l’instabilità normativa e l’assenza di una visione industriale di lungo periodo continuano a pesare sulla competitività. Gli esperti suggeriscono di concentrare le risorse in settori ad alto valore aggiunto, come tecnologie green, manifattura intelligente, biotecnologie e infrastrutture digitali, evitando dispersioni in sussidi a pioggia che non producono crescita sostenibile.


Le imprese italiane chiedono certezze regolatorie e tempi più rapidi nella realizzazione dei progetti. Le lungaggini burocratiche e la complessità dei processi autorizzativi rappresentano ancora uno dei principali freni agli investimenti, soprattutto nei comparti strategici. L’attenzione si concentra anche sulla questione energetica: l’aumento dei costi dell’energia ha ridotto la competitività di molte aziende manifatturiere, in particolare nel Nord, dove si concentra la produzione industriale più energivora. Servono, secondo gli operatori, politiche industriali coordinate che promuovano l’efficienza energetica e l’uso di fonti rinnovabili, oltre a incentivi per la riconversione dei processi produttivi.


Dal punto di vista del lavoro, la stabilità dei conti pubblici deve essere accompagnata da un rafforzamento della domanda interna e della qualità occupazionale. I dati sull’occupazione mostrano un aumento dei contratti a tempo determinato e una riduzione della forza lavoro giovane qualificata, con un tasso di migrazione intellettuale verso l’estero in costante crescita. La mancanza di investimenti in formazione e innovazione, unita alla bassa produttività, alimenta un circolo vizioso che limita la capacità del Paese di crescere in modo sostenibile. Economisti e associazioni datoriali insistono sulla necessità di un grande piano di politiche attive del lavoro, con incentivi alle assunzioni stabili, formazione digitale e sostegno all’imprenditorialità giovanile.


Anche sul piano europeo, la strategia italiana è osservata con attenzione. Le nuove regole di governance economica dell’Unione, che entreranno a pieno regime nel 2025, impongono un equilibrio più rigoroso tra rigore e investimenti. L’Italia dovrà presentare un piano credibile di riduzione del debito, ma potrà beneficiare di una maggiore flessibilità per gli investimenti in ambiti strategici come transizione ecologica e difesa. Questo margine dovrà essere utilizzato in modo selettivo e produttivo, concentrando le risorse su progetti ad alto impatto e su partnership pubblico-private che possano moltiplicare l’effetto degli interventi.


Nel dibattito interno emerge un consenso crescente sulla necessità di spostare l’attenzione dalla mera contabilità alla crescita reale. La tenuta dei conti, pur indispensabile, non può sostituire una strategia economica capace di rilanciare la competitività e la produttività. Le sfide globali — dalla trasformazione digitale alla sostenibilità ambientale — richiedono una visione di sistema che integri finanza pubblica, industria e innovazione. Senza un rafforzamento del tessuto imprenditoriale e una politica industriale coerente, la stabilità rischia di trasformarsi in immobilismo, e la prudenza finanziaria di oggi potrebbe diventare la fragilità economica di domani.

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