La Banca Popolare di Bari
Una storia ordinaria di cattiva gestione, quella della Banca Popolare di Bari gestita per decenni malissimo dalla famiglia Jacobini e quindi salvata con i soldi degli italiani. Niente di nuovo sotto il sole dunque ma l’ennesimo esempio di una realtà amministrata male, sulla quale si interviene producendo incentivi all’azzardo morale e gravando la collettività di costi ingiusti. Dopo le prime avvisaglie di irregolarità emerse in una prima ispezione nel 2010, la Banca Popolare di Bari è stata autorizzata nel 2014 ad acquisire il controllo di Banca Tercas ricevendo un contributo di 330 milioni da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) ed ha potuto raccogliere ulteriori 550 milioni tra il 2014 e il 2015 per portare avanti il processo di sviluppo lungo la dorsale adriatica del Paese, all’epoca previsto nel Piano industriale. Il progetto evidentemente non andava a buon fine e l’istituto bancario chiudeva il 2018 con una perdita di 430 milioni. Al buco dell’ultimo bilancio si aggiungano la pluralità di operazioni portate avanti nel corso degli ultimi anni, che portavano ad una voragine complessiva di oltre 2 miliardi di euro. (1) La crisi esplode in maniera clamorosa nel giugno 2019, quando la banca si presenta all’appuntamento con la semestrale con indici patrimoniali sotto ai minimi regolamentari, complice la continua erosione di capitale.(2) Il 13 dicembre del 2019 si dispone «lo scioglimento degli Organi con funzioni di amministrazione e controllo della Banca Popolare di Bari, con sede legale in Bari, e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli articoli 70 e 98 del Testo Unico Bancario, in ragione delle perdite patrimoniali». Il rischio, dopo una storia recente fatta di investimenti a rischio e operazioni sospette, è il fallimento. Un Consiglio dei ministri d’urgenza stanzia un intervento da 900 milioni. A giugno del 2020, con il 96% di voti favorevoli, la Banca Popolare di Bari viene trasformata in società per azioni. Si dà così il via al versamento di 1,6 miliardi di euro finanziati dal Fitd (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) e da MedioCredito Centrale (Mcc) per il rilancio della banca, con la copertura di tutti i debiti e la costituzione di un capitale minimo di 10 milioni di euro. La liquidazione della maggiore banca del Mezzogiorno è stata dunque scongiurata attraverso il concerto sistemico fra intervento privato delle banche (tramite il Fondo Fitd) e l’intervento del ministero dell’Economia (tramite la banca Mcc).
Monte Paschi di Siena: storia di scandali e risanamenti
Le origini del Monte dei Paschi di Siena (MPS) risalgono al 1472, anno in cui viene fondata quella che è una tra le Banche piú antiche e prestigiose del mondo, nonché terza banca italiana come potere creditizio. Con la legge bancaria del 1936 il Monte paschi di siena venne dichiarato istituto di credito di diritto pubblico. Nel anno ’90 invece inizia la privatizzazione del settore creditizio ed p proprio in questi anni che comincia la storia del colosso creditizio; Infatti, a differenza delle altre Banche, MPS, per specifici accordi politici, non seguì l’iter della privatizzazione. I veri problemi della banca senese iniziarono nel 2007, con l’acquisto della Antonveneta dal Santander spagnolo, per 9 miliardi di Euro, subendo un pesante passivo. Il prezzo di acquisto di BAV destò non pochi sospetti; Infatti, MPS comprò la banca antonveneta per quasi il doppio del prezzo pattuito dalla banca soagnola Santander, anch’essa allora interessata all’acquisto. Questo sovrapprezzo venne visto da molti come la dimostrazione di un versamento di una tangente. Dopo l’acquisto MPS rimase a corto di liquidità ed è per questo che nel 2012 venne approvato un piano di riduzione dei costi con la soppressione di 4600 posti di lavoro, la chiusura di 400 filiali entro il 2014 e una serie di svalutazioni. Solo nel 2013 la banca senese, proprio per le dinamiche poco chiare dell’acquisizione della banca antonveneta, finisce al centro di uno scandalo finanziario, legato alla precedente gestione di Giuseppe Mussari. A quest’ultimo, nel 2013, alla fine delle indagini, vengono imputati vari reati, come la manipolazione dei mercati e l'ostacolo alle attività di vigilanza. A ottobre del 2014, Mussari viene condannato, dal Tribunale di siena in primo grado, a 3 anni e 6 mesi di reclusione con l'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Nel 2017 viene assolto dalla Corte d'Appello di Firenze (sentenza confermata dalla Corte di Cassazione il 4 luglio del 2019). Ma, nel novembre 2019, il tribunale di Milano condannò l'ex presidente a 7 anni e 6 mesi di reclusione per le vicende che riguardano l’acquisizione della banca antonveneta. Ma torniamo alla storia della banca MPS. Dopo le dimissioni di Mussari, arrivò Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Unicredit e uno dei banchieri italiani all’epoca più stimati. Con lui inizia anche una lunga e complicata operazione di risanamento. I miglioramenti ci furono e furono evidenti ma questo non bastò a colmare tutti i problemi della banca senese. Nel giugno 2016 Monte paschi di siena ripiomba in una profonda crisi. I bilanci della Banca presentano ancora molte sofferenze, ossia crediti deteriorati che non sono altro che prestiti che non riesce a farsi restituire dovuti in parte alla crisi, che ha reso insolventi centinaia di imprenditori e risparmiatori, ma anche alle spregiudicate politiche di credito che la banca ha attuato negli ultimi anni. La Banca Centrale Europea a questo punto ordina a Mps di vedere almeno 9,7 miliardi di euro di sofferenze attraverso la loro trasformazione in titoli finanziari da immettere sul mercato. A questo punto si fa sempre più pressante l’idea che solo un intervento dello Stato possa decidere le sorti della Banca senese, fungendo da investitore che rimpinzi le casse e lo farà attraverso l’emissione di nuovo debito. Nel 2017 però, dopo varie incomprensioni, la Bce decide di abbassare le proprie pretese su Montepaschi (ricapitalizzazione da 6 miliardi e mezzo invece che quasi 9) al fine di rendere l'intervento statale compatibile, secondo la visione della Commissione, con le norme sugli Aiuti di Stato. Ma non senza sacrificio. Il minor numero di risorse statali porta con sé l’inevitabile ridimensionamento della rete e, dunque, del numero dei lavoratori (5000 esuberi). Una storia dunque fatta di stenti e di continue prove di salvataggio e risanamento. Anche oggi, il Montepaschi si trova di fronte a grandi difficolta: nonostante vari indicatori positivi e superiori alle previsioni del piano, nel 2019 Mps “non ha raggiunto gli obiettivi reddituali previsti dal Piano di Ristrutturazione concordato con l’Unione Europea”. A sottolinearlo la banca stessa aggiungendo che “gli impegni presi prevedono che in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi reddituali si proceda ad una riduzione di costi operativi di 100 milioni di euro rispetto a quelli previsti nel piano e la riduzione dovrebbe realizzarsi entro il 2021”. Lo Stato infatti controlla il 68% della banca e per accordi con la Ue deve uscire entro il 2021. Circolano varie ipotesi sul destino della banca. Un possibile scenario sembrerebbe quello della fusione con un altro istituto di credito anche se potrebbero essere prese altre strade, come un disimpegno parziale del Tesoro che però comporterebbe forti perdite per l’azionista pubblico. Il prossimo aprile sarà rinnovato il consiglio di amministrazione e ci sono rumors che l’amministratore delegato, Marco Morelli, possa non essere ricandidato.
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