Striscia di Gaza: gli Stati Uniti puntano sul via libera dell’Nazioni Unite per l’avvio di una forza internazionale di stabilizzazione
- piscitellidaniel
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Gli Stati Uniti hanno messo a punto una nuova proposta indirizzata all’Nazioni Unite in vista della crisi sempre più grave che investe la Striscia di Gaza, ove il conflitto tra Hamas e le forze israeliane entra in una fase di forte usura e distruzione. La strategia americana prevede l’istituzione di una missione internazionale di stabilizzazione come passaggio cruciale per la ricostruzione e la governance post-conflitto dell’area, in parallelo a un piano di ricostruzione e smilitarizzazione che dovrebbe accompagnare il ritiro delle truppe israeliane e l’eliminazione del ruolo militare di Hamas nella gestione della Striscia. Tale approccio riflette la volontà di Washington di esercitare un ruolo di leadership diplomatica nella regione e di coordinare una risposta multilaterale al vuoto di ordine che si profila nelle aree devastate dal conflitto.
L’elemento centrale della proposta è la predisposizione da parte degli Stati Uniti di un progetto articolato destinato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e all’Assemblea Generale: esso contempla la creazione di un governo tecnico di transizione per la Striscia, la dismissione del controllo attivo di Hamas, la partecipazione di una forza internazionale temporanea che ne garantisca la sicurezza e il monitoraggio, e un piano di ricostruzione su larga scala che coinvolga Paesi arabi e partner occidentali. La missione internazionale avrebbe pertanto un mandato di stabilizzazione e deradicalizzazione: controllare l’accesso alle armi, monitorare i valichi, garantire l’ordine pubblico e settoriale nel percorso di rilancio economico e sociale. Secondo fonti diplomatiche, la guida della forza potrebbe essere affidata all’Egitto, con contributi da parte di Turchia, Indonesia e Azerbaigian, mentre il mandato sarà formalmente sotto l’egida Onu, pur non assumendo necessariamente la configurazione classica di una missione di peace-keeping con caschi blu.
La scelta americana appare guidata da alcune considerazioni strategiche e operative: in primo luogo, l’intento di evitare che la Striscia di Gaza diventi una zona permanente di instabilità, da cui possano emergere nuove ondate di violenza e radicalizzazione che si ricumistano nei vicini confini meridionali di Israele e dell’Egitto. In secondo luogo, l’obiettivo è rompere il circolo vizioso della dipendenza umanitaria e dell’emergenza permanente, puntando al ripristino di infrastrutture civili, abitazioni, rete idrica e elettrica, e alla rimozione delle macerie che impediscono qualsiasi ripresa. In terzo luogo, l’approccio multilaterale cerca di migliorare la credibilità americana in Medio Oriente dopo anni di critica occupazione e bombardamenti, presentandosi come promotore di stabilizzazione e non solo di intervento militare.
Tuttavia la proposta americana si inserisce anche in un contesto regolamentare e diplomatico complesso: l’Onu ha finora visto blocchi e veti ripetuti, in particolare da parte degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza, che hanno impedito risoluzioni chieste da altri Stati circa il cessate il fuoco e l’accesso degli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Tale dinamica ha indebolito la percezione dell’Onu come piattaforma efficace per la gestione della crisi e ha alimentato la frustrazione della popolazione civile palestinese, intrappolata in condizioni gravissime di assedio, distruzione e carenza di servizi essenziali. In tale quadro, l’idea di una forza internazionale appare sia come un’opportunità che come un banco di prova per il multilateralismo, la sua capacità di intervento efficace e l’articolazione di un piano reale di stabilizzazione nel teatro più drammatico del conflitto israelo-palestinese.
Sul piano operativo, la realizzazione dell’intervento pone numerosi problemi: servirà innanzitutto un mandato Onu chiaro e condiviso, che definisca tempi, poteri e modalità di dispiegamento della forza; dovranno essere identificati gli Stati che forniranno contingenti, formazione e risorse, definendo anche il ruolo delle autorità palestinesi e il ruolo futuro di Hamas e del governo israeliano; sarà necessario garantire la protezione delle infrastrutture civili, la gestione della logistica umanitaria e la ripartenza delle attività economiche nella Striscia, in un contesto in cui la fiducia è minima, i danni infrastrutturali enormi e la popolazione altamente traumatizzata. Inoltre, la vicinanza della Striscia alla frontiera israeliana, la presenza di reti terroristico-militari ancora attive e la possibilità di ricadute regionali rendono l’operazione ad altissimo rischio politico, operativo e di sicurezza.
L’iniziativa americana, infine, dovrà confrontarsi con le posizioni dei Paesi arabi e dell’Unione Europea: molti Stati regionali sono favorevoli a un ruolo maggiore dell’Onu nel futuro della Striscia di Gaza e alla ricostruzione, ma mettono condizioni precise, quali la garanzia della sovranità palestinese, la presenza della comunità internazionale e la esclusione definitiva di Israele da ruoli di occupazione futura. Tali condizioni potrebbero diventare terreno di scontro, poiché la proposta americana privilegia una supervisione internazionale forte e una deradicalizzazione forzata di Hamas, condizioni che potrebbero suscitare resistenze tra i palestinesi e tra alcuni partner arabi.
L’evoluzione della vicenda sarà dunque segnata dalla capacità degli Stati Uniti e dell’Onu di ottenere l’adesione della comunità internazionale, di elaborare un piano credibile e attuabile, e di tradurre quanto annunciato in operazioni concrete sul terreno della Striscia di Gaza.

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