È morto Dick Cheney, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti sotto George W. Bush: simbolo del potere americano del dopo 11 settembre
- piscitellidaniel
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Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti durante le due amministrazioni di George W. Bush, è morto all’età di 84 anni. Figura tra le più influenti e controverse della politica americana contemporanea, Cheney ha segnato un’epoca con la sua visione strategica e il suo approccio fortemente pragmatico, spesso spinto verso il realismo politico più rigido. La sua carriera, che si estende per oltre cinque decenni, attraversa alcune delle fasi più delicate della storia recente degli Stati Uniti: dalla Guerra Fredda alla guerra in Iraq, dall’equilibrio dei poteri tra Congresso e Casa Bianca alla ridefinizione delle politiche di sicurezza nazionale dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
Nato nel 1941 a Lincoln, nel Nebraska, e cresciuto nel Wyoming, Cheney iniziò la sua carriera politica nei primi anni Settanta come collaboratore nell’amministrazione Nixon, distinguendosi per capacità organizzative e discrezione operativa. Dopo aver servito come capo di gabinetto alla Casa Bianca sotto Gerald Ford, fu eletto deputato e divenne in breve tempo uno dei leader repubblicani più rispettati alla Camera. Negli anni Ottanta, il suo nome si legò a un approccio conservatore in politica interna e a un’idea di potenza americana intesa come garanzia di stabilità globale.
La svolta arrivò nel 1989, quando il presidente George H. W. Bush lo nominò segretario alla Difesa. In quella veste Cheney gestì la Prima Guerra del Golfo, dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, imponendo una strategia militare basata su precisione e potenza tecnologica. L’operazione “Desert Storm” fu considerata un successo tattico e contribuì a consolidare la sua reputazione di uomo capace di decisioni rapide e di gestione efficace delle crisi. Tuttavia, la sua opposizione all’occupazione prolungata dell’Iraq e il successivo ritiro delle truppe americane segnarono un primo esempio della sua prudenza strategica, destinata a essere reinterpretata in chiave opposta durante la sua successiva esperienza alla vicepresidenza.
Dopo alcuni anni nel settore privato, alla guida della compagnia energetica Halliburton, Cheney tornò sulla scena politica nel 2000 come candidato vicepresidente accanto a George W. Bush. Il ticket repubblicano vinse le elezioni in una delle competizioni più contestate della storia americana. Inizialmente considerato un vice discreto e tecnicamente esperto, Cheney divenne rapidamente il principale architetto della politica di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
La sua influenza all’interno dell’amministrazione Bush fu profonda e costante. Promosse una dottrina di potenza preventiva che giustificò l’intervento militare in Afghanistan e soprattutto la guerra in Iraq nel 2003. Cheney fu tra i principali sostenitori dell’idea secondo cui il regime di Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa, una tesi che si rivelò infondata ma che determinò uno dei conflitti più controversi della storia recente americana. La sua visione del ruolo globale degli Stati Uniti si fondava sul principio che la sicurezza nazionale dovesse prevalere su qualsiasi altra considerazione, anche a costo di ridurre le libertà civili e i controlli democratici tradizionali.
Durante la sua vicepresidenza, Cheney divenne anche il simbolo di un potere esercitato dietro le quinte, spesso in modo riservato ma incisivo. Fu accusato di aver sostenuto pratiche di detenzione e interrogatorio che molti organismi internazionali definirono torture, come nel caso delle prigioni segrete della CIA e del carcere di Guantánamo. Difese queste scelte come “necessarie” per la sicurezza americana, ribadendo che la minaccia del terrorismo globale richiedeva strumenti eccezionali. Questa impostazione gli valse l’ammirazione di una parte del mondo conservatore e il disprezzo di larga parte dell’opinione pubblica internazionale.
Nonostante le polemiche, Cheney mantenne sempre una posizione coerente e priva di ambiguità. Considerava la forza militare e la capacità industriale degli Stati Uniti elementi imprescindibili dell’ordine mondiale. Credeva che la democrazia americana dovesse essere difesa anche attraverso l’uso della potenza, e che l’esercizio dell’autorità presidenziale non dovesse essere limitato da eccessivi vincoli burocratici. Questo approccio, spesso descritto come “presidenzialismo espansivo”, contribuì a ridefinire i confini del potere esecutivo nel XXI secolo.
Dopo la fine del secondo mandato Bush, Cheney si ritirò dalla politica attiva ma continuò a intervenire nel dibattito pubblico con dichiarazioni mirate e analisi sulla sicurezza nazionale. Le sue condizioni di salute, compromesse da una lunga storia di problemi cardiaci, non gli impedirono di pubblicare memorie e di partecipare a conferenze, mantenendo una posizione ferma sulle proprie scelte politiche. Negli ultimi anni aveva espresso preoccupazione per l’evoluzione del Partito Repubblicano, segnato dall’ascesa di Donald Trump, considerato da lui distante dai valori tradizionali del conservatorismo americano.
La morte di Dick Cheney chiude un capitolo fondamentale della politica statunitense e internazionale. È stato l’uomo che, più di ogni altro vicepresidente nella storia recente, ha esercitato un’influenza diretta e costante sulle decisioni della Casa Bianca. La sua eredità politica resta divisiva: per alcuni incarnazione della sicurezza e della determinazione americana, per altri simbolo di un potere senza trasparenza che ha segnato il rapporto tra democrazia e autorità negli anni del dopo 11 settembre.

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