Leadership italiana: senior, maschile e resistente al cambiamento. Giovani e donne restano ai margini dei vertici aziendali
- piscitellidaniel
- 29 apr
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La fotografia scattata da recenti indagini sul profilo dei vertici aziendali italiani conferma un dato strutturale: le posizioni apicali continuano a essere dominate da uomini over 50. L’età media degli amministratori delegati in Italia è pari a 60,9 anni, un dato che pone il Paese tra i più “senior” d’Europa per quanto riguarda la governance aziendale. La fascia più rappresentata è quella compresa tra i 50 e i 69 anni, che da sola raccoglie quasi l’80% dei CEO. In netta controtendenza rispetto alla spinta verso l’innovazione, il ricambio generazionale resta debole, mentre la presenza femminile ai vertici continua a essere marginale, nonostante il crescente dibattito sulla parità di genere.
Il confronto con altri Paesi europei rende ancora più evidente il ritardo italiano. Nei Paesi Bassi, in Svezia, in Francia e perfino in Germania, l’età media dei CEO è inferiore e la presenza di giovani nelle posizioni dirigenziali è più consistente. In Italia solo il 14% dei dirigenti ha meno di 40 anni, mentre la media europea si attesta al 33%. Questa scarsità di giovani nei ruoli di leadership è il riflesso di un sistema che tende a privilegiare la continuità rispetto all’innovazione e in cui l’anzianità di servizio pesa ancora troppo nella selezione dei vertici aziendali.
Se la questione generazionale è allarmante, quella di genere lo è altrettanto. Solo il 4% dei CEO in Italia è donna. Ancora peggio va sul fronte dei Chief Financial Officer, dove la presenza femminile si ferma al 6%. La situazione appare particolarmente critica se confrontata con la media globale (6% per i CEO e 17,6% per i CFO) e con quella europea (rispettivamente 7,3% e 16,6%). Questi numeri rivelano come le donne, pur avendo ottenuto maggiori spazi nei consigli di amministrazione grazie alla normativa sulle quote di genere, fatichino ad accedere ai ruoli esecutivi, dove si prendono le decisioni strategiche e si definisce il futuro dell’impresa.
La presenza femminile nei CdA, oggi superiore al 40%, è quindi ancora prevalentemente simbolica e poco incidente sulle dinamiche di potere reali. Il passaggio da consigliera a top manager si rivela un ostacolo complesso, condizionato da fattori culturali, strutturali e organizzativi. A frenare l’ascesa delle donne ci sono spesso carriere interrotte per la maternità, difficoltà di conciliazione tra tempi di vita e lavoro, stereotipi ancora radicati e la mancanza di role model riconosciute.
All’origine di questo doppio squilibrio – anagrafico e di genere – ci sono logiche aziendali che tendono a premiare percorsi lineari, omogenei e conformi a un modello di leadership tradizionale. Un modello che privilegia l’esperienza consolidata, spesso identificata con l’età, e che continua a escludere implicitamente profili che deviano da questa norma. È un sistema autoreferenziale, che riproduce se stesso attraverso network ristretti, nomine interne e processi di selezione ancora poco trasparenti.
Eppure i dati mostrano che la diversità generazionale e di genere produce valore. Studi internazionali indicano che le aziende guidate da team dirigenziali eterogenei hanno performance migliori in termini di redditività, innovazione e attrattività per i talenti. Un rinnovamento della leadership non è dunque solo una questione di equità, ma anche di competitività e visione strategica.
In questo contesto, le imprese italiane sono chiamate a un cambio di passo. Occorre promuovere politiche attive di empowerment femminile, percorsi di mentoring e affiancamento per i giovani, programmi di leadership inclusiva e criteri di valutazione del merito che vadano oltre le sole esperienze verticali. Il futuro del management italiano dipenderà dalla capacità di aprirsi a una pluralità di competenze e prospettive, valorizzando quelle risorse che oggi restano ai margini dei processi decisionali.
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