I dazi arrivano alla Corte Suprema Usa: Trump li definisce una “questione di vita o di morte” per l’industria americana
- piscitellidaniel
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La Corte Suprema degli Stati Uniti si prepara a esaminare uno dei casi economici e politici più rilevanti degli ultimi anni: la legittimità dei dazi imposti dall’amministrazione Trump durante il suo primo mandato, oggi divenuti un nodo cruciale nel dibattito sulla politica commerciale americana. L’ex presidente, che ha definito la questione “di vita o di morte per l’industria nazionale”, punta a rivendicare la piena autorità del potere esecutivo nell’imporre tariffe doganali per motivi di sicurezza economica e strategica. Il caso, che arriva davanti alla più alta corte del Paese dopo anni di ricorsi, rappresenta molto più di una controversia legale: si tratta di un test politico sul futuro della dottrina protezionista e sul ruolo dello Stato nella gestione del commercio globale.
La controversia nasce dai dazi introdotti nel 2018 e 2019 su acciaio, alluminio e una vasta gamma di prodotti cinesi, misure che avevano innescato una vera e propria guerra commerciale tra Washington e Pechino. Le tariffe, giustificate allora dall’ex presidente come necessarie a difendere la sicurezza nazionale, avevano suscitato forti opposizioni da parte di settori industriali, importatori e associazioni di categoria, che ne avevano contestato la legittimità costituzionale. Le imprese colpite sostennero che il presidente avesse abusato dei poteri conferiti dalla cosiddetta “Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962”, norma che consente al capo della Casa Bianca di intervenire in materia di commercio in caso di minaccia alla sicurezza nazionale.
Dopo anni di contenziosi nei tribunali federali, la questione è giunta ora alla Corte Suprema, che dovrà stabilire se l’uso estensivo di quella disposizione da parte di Trump rappresenti un legittimo esercizio del potere presidenziale o una violazione della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione. La decisione avrà effetti diretti non solo sulle politiche commerciali future, ma anche sulla definizione dei limiti dell’autorità esecutiva in campo economico.
La Casa Bianca di Joe Biden, pur non avendo abrogato i dazi introdotti dal suo predecessore, ha scelto di difendere formalmente la legittimità delle misure, segnalando così una continuità sostanziale nella linea di protezione dell’industria americana. Il Dipartimento di Giustizia ha infatti sostenuto che i poteri conferiti dalla Sezione 232 sono “ampi ma coerenti con il principio di delega legislativa”, e che la sicurezza economica rientra pienamente tra gli interessi strategici nazionali. La posizione dell’attuale amministrazione dimostra quanto la politica commerciale statunitense, al di là delle differenze tra democratici e repubblicani, stia convergendo verso una visione più assertiva nei confronti della Cina e dei partner internazionali.
La posta in gioco è altissima. Se la Corte dovesse dichiarare incostituzionali le misure, decine di miliardi di dollari di dazi potrebbero essere rimossi, con conseguenze rilevanti per l’economia globale e per le relazioni commerciali tra Washington e Pechino. In caso contrario, una sentenza favorevole alla linea di Trump rafforzerebbe il potere dell’esecutivo nel ridefinire unilateralmente le regole del commercio internazionale, aprendo la strada a un ritorno massiccio del protezionismo. Per l’ex presidente, oggi nuovamente in corsa per la Casa Bianca, la questione assume un valore politico strategico: difendere i dazi significa riaffermare la propria identità come difensore dei lavoratori industriali americani e della sovranità economica nazionale.
Negli ambienti economici, le reazioni alla riapertura del caso sono contrastanti. Le grandi industrie siderurgiche e metallurgiche hanno espresso sostegno alla posizione di Trump, sottolineando che le tariffe hanno contribuito a preservare posti di lavoro e investimenti negli Stati Uniti. Secondo l’American Iron and Steel Institute, i dazi del 2018 avrebbero portato a un aumento della produzione interna e a un miglioramento della redditività del settore. Al contrario, le associazioni degli importatori e delle imprese manifatturiere sostengono che le tariffe abbiano avuto un effetto opposto, aumentando i costi di produzione, riducendo la competitività e alimentando l’inflazione dei prezzi al consumo.
Sul piano politico, la questione divide profondamente anche il Congresso. I repubblicani più vicini all’ex presidente vedono nella causa un’occasione per rilanciare il principio di “America First”, mentre i democratici progressisti, pur condividendo l’obiettivo di ridurre la dipendenza economica dalla Cina, chiedono un approccio multilaterale e meno conflittuale. Le imprese tecnologiche e i grandi gruppi del settore energetico, che operano su scala globale, temono che una vittoria di Trump alla Corte Suprema possa riaccendere la stagione delle guerre commerciali e compromettere gli equilibri già fragili delle catene di approvvigionamento internazionali.
Gli esperti di diritto costituzionale sottolineano che la decisione della Corte potrebbe ridefinire il rapporto tra Congresso e Casa Bianca nella gestione della politica commerciale. Da oltre mezzo secolo, il potere di imporre dazi è stato progressivamente trasferito al presidente, ma senza un chiaro limite alla discrezionalità. La Corte Suprema, oggi a maggioranza conservatrice, potrebbe decidere di confermare questa prassi o, al contrario, riaffermare la necessità di un maggiore controllo legislativo. La discussione si inserisce in un contesto più ampio, in cui l’uso dei poteri di emergenza economica da parte del presidente – non solo in tema di commercio, ma anche di sanzioni e politiche industriali – è oggetto di crescente attenzione.
La posizione di Trump è chiara: considera i dazi uno strumento indispensabile per garantire la sicurezza nazionale e per difendere l’economia americana dalla concorrenza sleale della Cina. Nei suoi ultimi interventi pubblici, l’ex presidente ha ribadito che, se tornasse alla Casa Bianca, reintrodurrebbe una tariffa generalizzata del 10% su tutti i prodotti importati, con misure più severe per i Paesi che mantengono squilibri commerciali con Washington. La sua visione, basata su un protezionismo selettivo e su un ritorno della produzione manifatturiera in patria, trova consenso in ampie fasce dell’elettorato industriale, ma suscita preoccupazione tra economisti e analisti per il rischio di ritorsioni e di una nuova escalation commerciale globale.
L’esito del giudizio, atteso nei prossimi mesi, avrà implicazioni che vanno ben oltre la politica economica americana. Una conferma della legittimità dei dazi consoliderebbe la tendenza mondiale verso un ritorno al nazionalismo economico e alla frammentazione del commercio internazionale, mentre una loro bocciatura rappresenterebbe un segnale di discontinuità in difesa dell’ordine multilaterale. Gli Stati Uniti si trovano così di fronte a una scelta che potrebbe ridefinire il modo in cui il Paese concepisce la propria leadership economica globale, in un momento in cui le tensioni geopolitiche e la sfida tecnologica con la Cina stanno ridisegnando l’intera architettura del commercio mondiale.

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