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Contributo da almeno 4 miliardi richiesto alle banche: scenari, modalità e tensioni nella manovra economica

Nel corso delle trattative per la legge di bilancio, il Governo ha inserito fra le sue opzioni un contributo straordinario da parte del sistema bancario, stimato in almeno 4 miliardi di euro. Si tratta di un intervento che si colloca nel quadro delle coperture finanziarie necessarie a sostenere misure sociali, fiscali e di stimolo in un contesto in cui lo spazio di bilancio è sempre più compresso. Il settore bancario è finito sotto pressione, con indiscrezioni che parlano dell’unione di più strumenti — fra cui l’anticipo delle imposte differite attive (DTA) e una possibile imposta sugli utili accantonati — per raggiungere la cifra richiesta.


L’orientamento è apparso chiaro fin dalle prime bozze della manovra: tra le opzioni su cui il Mef sta trattando con gli istituti di credito c’è un contributo “straordinario di solidarietà”, non concepito come una nuova tassa classica, ma come una forma di apporto concordato che non intacchi il patrimonio patrimoniale delle banche. Il vicepremier ha più volte ribadito che l’intento non è penalizzare il settore, ma mobilitare risorse utili per il bilancio statale. Fonti governative riferiscono che l’obiettivo è distribuire il carico sui prossimi due anni, in modo graduale e con modalità che minimizzino gli impatti sui conti bancari.


Una delle modalità tecniche maggiormente prese in esame è l’anticipo delle DTA: le imposte differite attive rappresentano crediti fiscali futuri contabilizzati dalle banche, legati a eventi come la deducibilità di perdite fiscali o qualificazioni tributarie. Chiedere un anticipo non significa tassare un utile corrente, ma recuperare parte del valore contabile già rilevato in bilancio. Secondo alcune ricostruzioni, la combinazione tra lo slittamento delle DTA e l’affrancamento delle somme accantonate potrebbe portare un gettito iniziale attorno a 3,7 miliardi di euro. Includendo anche la tassazione sui dividendi derivanti da tali utili, si arriverebbe a superare la soglia dei 4 miliardi.


Un altro elemento oggetto di negoziazione è l’imposta sugli utili 2023 accantonati: molte banche avevano scelto di non distribuire dividendi per preservare capitali, in alcuni casi convertendo utili in riserve. Il Governo valuta di applicare un’imposizione retroattiva su queste riserve, con un’aliquota agevolata rispetto a quella originale. L’idea è che le somme affrancate, una volta destinate a dividendi o distribuzioni, paghino un’imposta “di sblocco” a favore dello Stato, che in cambio mobilita risorse per la manovra.


La reazione del settore bancario, coordinata attraverso l’Associazione bancaria italiana (ABI), è stata di disponibilità condizionata. L’ABI ha confermato che è favorevole a un contributo straordinario nella logica già adottata lo scorso anno, ma ha espresso forte cautela rispetto all’idea di una misura punitiva o retroattiva. Le banche chiedono regole chiare, vincoli temporali e modalità che non compromettano la stabilità patrimoniale. Il comitato esecutivo dell’associazione ha approvato all’unanimità l’idea di proseguire in via straordinaria con un contributo poliennale al bilancio dello Stato, a patto che ogni intervento rispetti principi di sostenibilità e non generi effetti disastrosi sui loro bilanci.


Sul fronte politico, la proposta ha generato tensioni all’interno della maggioranza. Alcuni esponenti hanno visto nell’imposizione una misura necessaria per reperire risorse senza aggravare ulteriormente le imposte su famiglie e imprese. Altri — in particolare all’interno dei partiti che tradizionalmente difendono il ruolo del settore privato — hanno sollevato obiezioni legate al principio della stabilità finanziaria e all’effetto segnale verso gli investitori. Forza Italia, ad esempio, ha insistito che non si tratti di una tassa, ma di un impegno volontario (o concordato) da parte delle banche.


L’impatto sui mercati finanziari non si è fatto attendere: i titoli bancari sono stati sotto pressione nelle ultime sedute, con perdite nell’ordine dell’1-3 % per alcuni grandi istituti. Gli analisti segnalano che, pur essendo un importo gestibile, la misura introduce incertezza sul costo del capitale futuro e sulle prospettive di distribuzione degli utili. Nel caso in cui l’onere venisse scaricato in modo aggressivo sulle banche, si pone il rischio di indebolire la liquidità o rallentare il credito, con effetti indiretti sull’economia reale.


I costi latenti della misura sono molteplici. Oltre all’effetto immediato sui bilanci bancari, si dovranno valutare le possibili ricadute su rating, cost of equity, TCR e potrebbe aumentare la percezione di rischio di settore. Le banche minori, cooperative e le casse locali presentano margini più stretti e potrebbero essere più vulnerabili a misure eccessive. Una trattativa dunque dovrà tenere conto delle differenze strutturali nel panorama bancario italiano.


La destinazione delle risorse raccolte è un altro nodo cruciale. Secondo le versioni emerse, il contributo dovrebbe finanziare spese legate alla sanità, al sostegno sociale, e a programmi per le fasce più fragili. L’obiettivo è associare il prelievo a finalità redistributive, in modo da legittimarlo nella narrativa pubblica e da offrire un ritorno sociale evidente. Nel disegno governativo il contributo bancario non è concepito come mero sfogo fiscale, ma come patto di solidarietà per sostenere investimenti pubblici in settori ad alta priorità.


La misura del contributo da 4 miliardi richiesto alle banche inserisce nel dibattito sulla manovra un tema che va oltre il mero prelievo: solleva questioni di equità territoriale, di compatibilità con le regole europee sugli aiuti di Stato, della capacità del settore bancario di assorbire oneri straordinari e del bilanciamento fra politica fiscale e stabilità finanziaria. In definitiva, la partita è delicata: da un lato lo Stato ha bisogno di risorse che non pesino troppo sul conflitto sociale; dall’altro il comparto bancario reclama garanzie e limiti per evitare effetti collaterali indesiderati.

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