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Petrolio e gas in rialzo, borse in calo: il costo della guerra tra Israele e Iran e lo spettro del blocco dello Stretto di Hormuz

L’inasprimento del conflitto tra Israele e Iran ha provocato un terremoto sui mercati internazionali, mettendo sotto pressione il comparto energetico e aumentando il rischio di nuove instabilità macroeconomiche globali. Il timore di un’estensione delle ostilità nel Golfo Persico, con conseguenze dirette sul transito delle materie prime, ha portato a un brusco rialzo dei prezzi di petrolio e gas, mentre le borse hanno reagito con un’ondata di vendite che ha colpito soprattutto i settori più esposti alla volatilità geopolitica. A rendere ancora più critico lo scenario è il pericolo concreto di un blocco dello Stretto di Hormuz, punto nevralgico per i flussi mondiali di greggio e GNL.


Nelle ultime ore, il prezzo del petrolio Brent è tornato sopra i 87 dollari al barile, registrando un balzo del +4% in una sola giornata, mentre il WTI ha superato gli 83 dollari. Anche il gas naturale europeo ha subito un rialzo significativo: il TTF olandese, principale benchmark del Vecchio Continente, è salito del 7,5% toccando i 36 euro/MWh, livello che non si registrava da mesi. Gli analisti parlano di un “effetto escalation” provocato dalle minacce reciproche tra Teheran e Gerusalemme, ma anche da una crescente incertezza logistica che sta già rallentando il traffico marittimo nell’area strategica che collega il Golfo all’Oceano Indiano.


Lo Stretto di Hormuz è un punto di passaggio obbligato per circa il 20% della produzione mondiale di petrolio e il 25% delle esportazioni globali di gas naturale liquefatto. In media, transitano ogni giorno circa 17 milioni di barili di greggio. Una sua eventuale chiusura o anche solo un’interruzione parziale rappresenterebbe uno shock immediato per il sistema energetico globale, già sotto pressione per l’instabilità del mercato russo e per le strozzature logistiche ancora presenti dopo la pandemia. La possibilità che l’Iran decida di ostacolare il traffico navale nello Stretto come ritorsione a un attacco diretto da parte di Israele non è considerata remota: Teheran ha già minacciato di “usare tutti i mezzi necessari per difendere la propria sovranità”, compreso il blocco dei corridoi energetici marittimi.


Questa minaccia ha avuto effetti immediati sulle borse. I principali indici europei hanno chiuso in negativo: il DAX di Francoforte ha perso l’1,6%, il CAC 40 di Parigi l’1,9%, e il FTSE MIB di Milano il 2,1%, trascinato al ribasso dai titoli industriali e dai comparti ad alta esposizione energetica. Anche Wall Street ha reagito con cautela, con il Nasdaq in flessione e il Dow Jones che ha registrato oscillazioni marcate nel corso della giornata. A pagare il prezzo maggiore sono stati i titoli legati ai trasporti, al turismo e ai settori energivori come la chimica e la manifattura pesante, preoccupati per un possibile aumento prolungato dei costi dell’energia.


Le previsioni dei principali centri di ricerca economica sono improntate alla prudenza. Goldman Sachs ha rivisto al rialzo il target price del Brent per il terzo trimestre 2025 a 95 dollari al barile, ipotizzando uno scenario di “rischio geopolitico elevato”. Anche JPMorgan ha lanciato l’allarme sulle possibili ripercussioni sull’inflazione globale, stimando che un rialzo di 10 dollari del greggio potrebbe aggiungere fino a 0,4 punti percentuali all’indice dei prezzi al consumo nei Paesi del G7. Per l’Italia, che dipende ancora per circa il 74% dalle importazioni energetiche, un simile scenario rappresenta una minaccia alla stabilità economica e alla fragile ripresa post-pandemica.


Le autorità europee stanno monitorando attentamente l’evolversi della situazione. La Commissione ha convocato una riunione straordinaria del gruppo di coordinamento dell’energia per valutare scenari di approvvigionamento alternativi e rafforzare la cooperazione con i Paesi esportatori non coinvolti nella crisi, come Norvegia, Algeria, Qatar e Stati Uniti. Anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha espresso preoccupazione per il possibile utilizzo politico dell’energia da parte degli attori coinvolti e ha ribadito la necessità di accelerare la diversificazione delle fonti e degli itinerari di fornitura, inclusa la creazione di nuove infrastrutture per il GNL in Europa meridionale.


Il governo italiano, attraverso il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin, ha dichiarato che “la sicurezza energetica è una priorità assoluta e sono già in corso contatti con Eni e Snam per valutare le eventuali criticità lungo le rotte di importazione di gas e petrolio”. È stato anche riattivato il meccanismo di sorveglianza nazionale dei prezzi, per prevenire speculazioni e garantire trasparenza sul mercato interno. Le associazioni dei consumatori, dal canto loro, hanno lanciato un appello affinché eventuali aumenti dei prezzi di carburanti e bollette non ricadano in modo sproporzionato su famiglie e piccole imprese, già provate dall’inflazione persistente.


Nel frattempo, l’industria europea si trova nuovamente in una posizione di vulnerabilità. Settori come l’automotive, la siderurgia, la ceramica e l’agroalimentare rischiano di veder lievitare i costi di produzione, compromettendo la competitività sui mercati internazionali. Alcune aziende hanno già fatto sapere che valuteranno il ricorso a fermate programmate in caso di picchi nei prezzi energetici. La Commissione UE starebbe valutando la possibilità di estendere per un ulteriore semestre le misure straordinarie di sostegno all’industria energivora, in scadenza entro la fine dell’anno.


Anche le compagnie aeree stanno rivedendo i propri piani operativi. Il carburante avio rappresenta fino al 40% dei costi di un volo e il rialzo dei prezzi del greggio ha già portato alcune compagnie low-cost a preannunciare un possibile adeguamento dei prezzi dei biglietti a partire dall’autunno. I vettori cargo, inoltre, stanno ridisegnando le rotte per evitare lo Stretto di Hormuz e le zone limitrofe, con un conseguente allungamento dei tempi di consegna e incremento dei costi di trasporto marittimo.


Il contesto è reso ancora più critico dall’incertezza diplomatica. Gli sforzi internazionali per una de-escalation si sono finora scontrati con la determinazione di Israele a proseguire nelle operazioni militari preventive contro l’apparato nucleare e missilistico iraniano. Teheran, dal canto suo, continua a invocare il diritto alla difesa e ha lanciato messaggi ambigui sull’uso della leva energetica come strumento di pressione. L’ONU, l’Unione Europea e la Cina hanno chiesto con forza un cessate il fuoco immediato, ma al momento nessuno degli attori principali sembra disposto a un compromesso.


La comunità finanziaria globale osserva con crescente preoccupazione l’evoluzione del conflitto. I fondi di investimento si stanno spostando su asset ritenuti più sicuri, come oro, titoli di Stato USA e franco svizzero, mentre le valute dei Paesi emergenti subiscono una nuova ondata di vendite. L’economia mondiale, già appesantita da due anni di tassi d’interesse elevati, potrebbe dover affrontare un nuovo shock esterno, che impatterebbe sui consumi, sulla fiducia delle imprese e sulla stabilità finanziaria dei Paesi più esposti alla volatilità dei mercati energetici.

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