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Manovra, oltre alle pensioni si fermano Zes e Transizione 4.0 e si ridefiniscono le priorità della politica industriale

La manovra di bilancio segna un punto di discontinuità nelle politiche economiche recenti, perché accanto agli interventi sulle pensioni emergono con chiarezza scelte che incidono direttamente sugli strumenti di sviluppo e di incentivo agli investimenti, con il venir meno delle Zes e lo stop alla Transizione 4.0 nella forma conosciuta finora. La ridefinizione delle risorse disponibili e la necessità di contenere l’impatto della legge di bilancio sui conti pubblici portano il governo a concentrare gli interventi su misure considerate prioritarie dal punto di vista sociale, riducendo al contempo il perimetro degli incentivi automatici alle imprese che avevano caratterizzato gli ultimi anni.


La cancellazione o il ridimensionamento delle Zone economiche speciali rappresenta uno dei segnali più rilevanti sul fronte dello sviluppo territoriale. Le Zes erano state pensate come uno strumento di attrazione degli investimenti, in particolare nel Mezzogiorno, attraverso agevolazioni fiscali, semplificazioni amministrative e un quadro di incentivi volto a ridurre il divario competitivo con le aree più sviluppate del Paese. La loro uscita di scena, almeno nella configurazione precedente, riflette una valutazione critica sull’efficacia del modello e sulla sostenibilità finanziaria di un sistema di agevolazioni diffuso, che richiede risorse ingenti e risultati non sempre immediatamente misurabili.


Il venir meno delle Zes apre interrogativi sul futuro delle politiche di coesione e sul modo in cui il governo intende sostenere gli investimenti nelle aree più fragili. La scelta di interrompere uno strumento simbolicamente rilevante per il Sud viene letta come il segnale di una fase di ripensamento complessivo, nella quale l’esecutivo sembra orientato a privilegiare interventi più selettivi e mirati, piuttosto che meccanismi automatici di incentivo. Questo approccio comporta però il rischio di una riduzione della prevedibilità per le imprese, che negli ultimi anni avevano iniziato a incorporare le Zes nelle proprie strategie di localizzazione e sviluppo.


Ancora più significativo, per l’impatto sull’intero sistema produttivo, è lo stop alla Transizione 4.0. Il piano, evoluzione del precedente Industria 4.0, aveva rappresentato uno dei principali strumenti di politica industriale, favorendo la modernizzazione dei processi produttivi attraverso crediti d’imposta per investimenti in beni strumentali, innovazione, ricerca e formazione. La sua sospensione o profonda revisione segna la fine di una stagione caratterizzata da incentivi automatici e orizzontali, che avevano sostenuto in modo trasversale gli investimenti tecnologici di imprese di ogni dimensione.


La decisione di non rifinanziare Transizione 4.0 nella manovra viene giustificata con l’esigenza di razionalizzare la spesa e di evitare meccanismi considerati troppo costosi e difficilmente controllabili. Tuttavia, l’assenza di uno strumento alternativo immediatamente operativo rischia di creare un vuoto nelle politiche di supporto agli investimenti, proprio in una fase in cui la competitività delle imprese è messa alla prova dalla transizione digitale, dall’aumento dei costi e dalla concorrenza internazionale. Il venir meno di un quadro stabile di incentivi può tradursi in un rinvio o in una riduzione degli investimenti programmati, soprattutto da parte delle piccole e medie imprese.


Il quadro che emerge dalla manovra evidenzia una riallocazione delle risorse a favore di misure con un impatto diretto e immediato sulla spesa sociale, in particolare sul fronte pensionistico. Questa scelta risponde a esigenze di consenso e di gestione delle pressioni sociali, ma comporta un ridimensionamento delle politiche orientate alla crescita di medio-lungo periodo. Il bilanciamento tra sostegno al reddito e incentivi allo sviluppo torna così al centro del dibattito economico, riproponendo una tensione strutturale che accompagna da tempo le scelte di finanza pubblica.


Dal punto di vista delle imprese, la manovra introduce un elemento di incertezza. La fine di strumenti come Zes e Transizione 4.0 impone una revisione delle strategie di investimento e solleva interrogativi sulla direzione futura della politica industriale. In assenza di incentivi automatici, il sostegno pubblico rischia di diventare più discrezionale e legato a bandi o programmi selettivi, con tempi più lunghi e una maggiore complessità amministrativa. Questo cambio di paradigma può penalizzare soprattutto le realtà meno strutturate, che avevano beneficiato della semplicità e della prevedibilità dei crediti d’imposta.


Sul piano macroeconomico, le scelte contenute nella manovra riflettono la necessità di mantenere il controllo dei conti in un contesto di vincoli stringenti e di attenzione da parte dei mercati e delle istituzioni europee. La riduzione delle misure di incentivo automatico consente di limitare l’impatto sul deficit, ma pone il problema di come sostenere la crescita potenziale in un’economia che già sconta ritardi strutturali in termini di produttività e innovazione. La rinuncia a strumenti collaudati, seppur costosi, richiede una visione alternativa chiara per evitare che il rallentamento degli investimenti si traduca in una perdita di competitività.


La manovra ridisegna dunque le priorità della politica economica, segnando una fase di transizione anche per il rapporto tra Stato e sistema produttivo. La fine delle Zes e di Transizione 4.0, insieme alla centralità delle misure pensionistiche, restituisce l’immagine di una legge di bilancio orientata più alla gestione dell’esistente che alla spinta trasformativa. Resta aperto il nodo di come il governo intenda accompagnare le imprese nella doppia sfida della transizione digitale e della sostenibilità, in assenza di strumenti che negli ultimi anni avevano rappresentato un punto di riferimento per la programmazione degli investimenti.

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