Guerra dei dazi e tempesta monetaria: Fd e BCE alla prova tra inflazione, recessione e pressioni politiche
- Martina Migliorati
- 8 apr
- Tempo di lettura: 3 min

La guerra dei dazi scatenata da Donald Trump sta riscrivendo le regole del gioco economico globale.
Le conseguenze non si limitano alle prospettive di crescita: anche le banche centrali, in particolare la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, si trovano costrette a ricalibrare le proprie strategie.
Da un lato aumentano le probabilità di tagli dei tassi più frequenti e consistenti, dall’altro si rafforza l’esigenza di adottare un atteggiamento prudente per evitare errori che potrebbero costare caro.
Come spesso accade, le dinamiche economiche si sviluppano in maniera molto diversa tra le due sponde dell’Atlantico.
Negli Stati Uniti, la Federal Reserve si trova davanti a un bivio: tagliare i tassi per sostenere l’economia, oppure attendere, rischiando però un’esplosione inflazionistica o – nella peggiore delle ipotesi – una stagflazione.
Quest’ultima ipotesi, già evocata dal presidente Jerome Powell, ha avuto immediate ripercussioni sul mercato valutario, provocando un indebolimento del dollaro.
Nonostante le forti pressioni della Casa Bianca, che spinge per un allentamento monetario per contrastare la recessione prevista da più agenzie di rating, la Fed appare intenzionata a muoversi con maggiore cautela.
Prima del “Liberation Day”, l’orientamento era per due soli tagli nel corso del 2025, ma l’estensione dei dazi ha cambiato tutto: ora la banca centrale statunitense teme sia il rallentamento economico sia un’inflazione fuori controllo.
Il presidente Trump, nel frattempo, accusa Powell di essere sempre in ritardo e incalza: “Questo è il momento perfetto per tagliare i tassi”.
Gli analisti, però, sono divisi. C’è chi ritiene che la Fed manterrà la rotta con due tagli nel corso dell’anno, privilegiando la stabilità, e chi invece prevede interventi immediati per arginare il rischio recessione, seguiti da un ritorno a politiche restrittive nel 2026 per domare l’inflazione.
I segnali dei mercati finanziari sembrano dare credito a questa seconda ipotesi: i rendimenti dei bond americani sono in calo, mentre il dollaro perde quota rispetto all’euro, che ha superato la soglia di 1,10 USD.
Secondo Standard & Poor’s, la Fed dovrebbe mantenere i tassi fermi per gran parte dell’anno, prevedendo un eventuale taglio solo negli ultimi mesi del 2025.
Tuttavia, in caso di una brusca contrazione della domanda di lavoro o della spesa dei consumatori, non è escluso un cambio di rotta più aggressivo.
Diversa, ma non meno complessa, la situazione della Banca Centrale Europea.
La BCE deve fare i conti con un euro troppo forte, che danneggia la competitività dell’export europeo, già messa a dura prova dai dazi americani.
Un ulteriore rafforzamento della valuta unica – che si mantiene sopra 1,10 USD dopo aver toccato i minimi di 1,01 nei mesi scorsi – rischia di aggravare lo scenario recessivo.
In questo contesto, l’istituto guidato da Christine Lagarde appare orientato a proseguire nella politica di tagli dei tassi.
L’obiettivo è portare il tasso di riferimento al 2% entro fine anno, ma l’evoluzione degli eventi potrebbe anticipare il prossimo taglio già alla riunione del 17 aprile, con una prospettiva di discesa fino all’1,75% entro il 2025.
Anche S&P condivide questa visione, prevedendo almeno un taglio in più rispetto alle stime iniziali.
Le previsioni di Deutsche Bank sul PIL dell’Eurozona riflettono l’impatto dei dazi: si parla di una contrazione compresa tra lo 0,4% e lo 0,8%, con una crescita rivista al ribasso per il 2025 tra +0,25% e +0,5%, rispetto allo 0,8% stimato in precedenza.
La Cina, da parte sua, ha già reagito con fermezza ai nuovi dazi imposti da Washington.
Pechino potrebbe optare per una svalutazione dello yuan, intervenendo direttamente sul mercato o agendo sui tassi di interesse. Il governo cinese è pronto a fare pressione sulla Banca Popolare Cinese affinché adotti un approccio più aggressivo, utile a sostenere l’export in un contesto sempre più competitivo.
Nel frattempo, la turbolenza dei mercati azionari si traduce in una fuga verso le valute rifugio.
Lo yen giapponese continua a rafforzarsi sul dollaro, che scende a 145,48 (-0,99%), mentre il franco svizzero registra un apprezzamento che porta il cambio a 0,8462 (-1,67%).
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