Il richiamo di Parolin alla COP30: la crisi climatica come nuova frontiera dei conflitti e delle migrazioni
- piscitellidaniel
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Alla vigilia della COP30, il cardinale Pietro Parolin ha posto al centro del dibattito una verità sempre più innegabile: il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale, ma una forza destabilizzante che moltiplica guerre, povertà e spostamenti di massa. Le sue parole, pronunciate in un contesto diplomatico di alto livello, hanno risuonato come un appello morale e politico alla responsabilità collettiva, sottolineando come la crisi climatica stia progressivamente trasformandosi in una crisi umanitaria globale.
Il nesso tra degrado ambientale, conflitti e migrazioni è ormai evidente. Eventi meteorologici estremi, desertificazione, inondazioni e perdita di risorse naturali costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie terre. Secondo le stime più recenti, oltre tre quarti degli sfollati interni nel mondo vivono in Paesi colpiti da gravi fenomeni climatici. La scarsità d’acqua e la perdita di fertilità dei suoli, in particolare nell’Africa subsahariana e in parte dell’Asia, alimentano tensioni e scontri per il controllo delle risorse. È il volto concreto di una crisi che non conosce confini e che rischia di diventare la principale minaccia alla pace e alla stabilità globale.
Parolin ha evidenziato che il clima, nel suo mutare, non è solo un dato scientifico, ma una realtà che tocca la dignità umana. L’aumento dei disastri naturali e la fragilità delle istituzioni nei Paesi più vulnerabili creano un circolo vizioso: i conflitti rendono impossibile adattarsi agli shock ambientali, e questi, a loro volta, aggravano la povertà e l’instabilità. In molte regioni del mondo, l’agricoltura di sussistenza è ormai impraticabile, i villaggi vengono abbandonati e gli Stati faticano a garantire servizi essenziali. Da qui nascono flussi migratori che non sono più solo temporanei, ma strutturali, con popolazioni costrette a spostarsi in modo permanente alla ricerca di condizioni minime di sopravvivenza.
Alla Conferenza sul clima, il dibattito sulla giustizia climatica assume quindi una valenza geopolitica. I Paesi che meno hanno contribuito alle emissioni globali sono quelli che oggi ne subiscono le conseguenze più pesanti. Si tratta di una disparità etica e politica che mette alla prova il principio di solidarietà internazionale. La Santa Sede, nel suo intervento, ha ribadito la necessità di un impegno concreto dei Paesi industrializzati non solo sul piano della riduzione delle emissioni, ma anche su quello del sostegno finanziario e tecnologico alle economie emergenti. Senza un’azione coordinata, la transizione ecologica rischia di accentuare le disuguaglianze invece di ridurle.
L’emergenza climatica ha inoltre ridefinito il concetto stesso di sicurezza. Non si parla più solo di difesa militare, ma di sicurezza alimentare, idrica e sanitaria. Il degrado ambientale diventa un moltiplicatore di instabilità che colpisce soprattutto le aree già fragili: il Sahel, il Corno d’Africa, il Medio Oriente. In questi contesti, la scarsità di risorse e il collasso dei servizi essenziali favoriscono l’insorgere di gruppi armati, il traffico di esseri umani e il consolidarsi di economie illegali. È una catena di eventi che, se non interrotta, rischia di coinvolgere anche le regioni più sviluppate, come l’Europa, attraverso nuove ondate migratorie e pressioni geopolitiche.
Le organizzazioni internazionali, dall’ONU all’UNHCR, hanno lanciato l’allarme su un dato che sintetizza l’urgenza del problema: entro il 2050, il cambiamento climatico potrebbe costringere oltre 200 milioni di persone a lasciare le proprie case. Ma si tratta di una stima prudente, che non tiene conto delle guerre, dei disastri naturali combinati e delle crisi economiche parallele. Il cardinale Parolin ha insistito su un punto fondamentale: la risposta a questa emergenza deve essere integrata e non frammentata. Le politiche ambientali, di sviluppo e di pace devono convergere in un’unica strategia globale, capace di affrontare la radice del problema e non solo le sue conseguenze.
Il vertice di Belém, in Brasile, sarà un banco di prova cruciale. La COP30 dovrà decidere se la comunità internazionale è disposta a trasformare gli impegni dichiarati in azioni concrete. La questione dei finanziamenti per l’adattamento dei Paesi poveri resta aperta: i fondi promessi non sono mai stati completamente erogati e le procedure per accedervi rimangono complesse e lente. In questo scenario, la voce della Santa Sede rappresenta un richiamo alla responsabilità morale, ma anche un invito alla coerenza politica.
Parolin ha parlato di un “dovere etico verso i popoli della Terra”, richiamando la dimensione spirituale della crisi ambientale. Non si tratta solo di ridurre la CO₂, ma di ripensare il modello di sviluppo, di consumo e di rapporto con il pianeta. Ogni scelta economica o politica, ha ricordato, ha una conseguenza sociale e ambientale. L’umanità, ha detto, non può più considerarsi separata dalla natura, perché ciò che distrugge la Terra distrugge anche la sua stessa sopravvivenza.
Il messaggio finale che emerge è quello di una conversione collettiva, non religiosa ma culturale: il clima non è un tema di nicchia per scienziati o ambientalisti, ma una questione di giustizia e di pace. Se il cambiamento climatico genera nuovi sfollati e nuovi conflitti, allora la lotta al riscaldamento globale diventa, a tutti gli effetti, una politica di sicurezza internazionale.

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