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Attacco incendiario contro una moschea in Cisgiordania: aumentano le tensioni tra coloni israeliani e comunità palestinese

Un nuovo episodio di violenza si è verificato in Cisgiordania, dove un gruppo di coloni israeliani ha dato fuoco a una moschea, generando indignazione, condanne e timori per l’escalation del conflitto nella zona occupata. L’attacco ha interessato un edificio sacro che funge da luogo di culto e di aggregazione per la comunità locale palestinese, e rappresenta l’ennesimo segnale della crescente aggressività registrata nei confronti delle infrastrutture civili e religiose nelle aree dell’occupazione. Secondo le informazioni raccolte, i responsabili hanno non soltanto incendiato parti della struttura, ma anche imbrattato i muri con scritte in ebraico dal carattere provocatorio, a testimonianza del disprezzo e della volontà intimidatoria nei confronti della popolazione palestinese. Il fatto si inserisce in un contesto caratterizzato da un aumento degli attacchi dei coloni, la percezione di impunità e una forte pressione sul tessuto comunitario palestinese.


L’edificio interessato è stato preso di mira durante la notte, in un villaggio della Cisgiordania settentrionale situato in prossimità della città di Salfit. Gli aggressori, secondo testimoni oculari, hanno penetrato il perimetro del villaggio con relative facilità, hanno spruzzato liquido infiammabile sull’ingresso della moschea, dato fuoco a tappeti e elementi interni e successivamente si sono allontanati, lasciando scritte quali “Vendetta” e “La moschea brucerà” sulle pareti esterne. Le prime squadre di soccorso sono riuscite a contenere il rogo prima che l’intera struttura venisse distrutta, ma i danni materiali e simbolici sono considerevoli. Il consiglio del villaggio ha immediatamente espresso profondo sconforto per l’evento, sottolineando che episodi analoghi si ripetono con crescente frequenza e che la sensazione di vulnerabilità della comunità è forte.


Dal punto di vista istituzionale, le autorità israeliane competenti hanno annunciato l’apertura di un’indagine congiunta, tramite polizia e agenzia di sicurezza interna, ma gli attivisti palestinesi e diverse ONG segnalano che la percentuale di casi effettivamente perseguiti e condannati è storicamente bassissima. In molte occasioni gli attacchi dei coloni restano senza responsabili identificati, alimentando il sentimento che una parte di questi atti sia tollerata o perfino indirettamente facilitata dalle forze di sicurezza israeliane. Il governatore locale ha affermato che l’episodio non sarebbe potuto verificarsi senza la “protezione” che i coloni sembrano ricevere in certi contesti, richiamando il tema dell’insediamento in espansione e della difficoltà dei residenti palestinesi ad ottenere protezione adeguata.


L’attacco incide su più fronti: simbolico, materiale e relazionale. Prima di tutto, si tratta di un assalto diretto a un luogo di culto, un fatto che amplifica l’offesa percepita dalla comunità religiosa e civile e che ha ricadute sulla coesione del villaggio stesso. In secondo luogo, danneggia infrastrutture che già vivono in condizioni di precarietà, riduce la fiducia nei meccanismi di protezione e accresce la sensazione di isolamento. Infine, aggrava un clima già teso sul piano locale e regionale, dove i villaggi palestinesi sottoposti a pressioni di insediamento, restrizioni alla mobilità, confische agricole e attacchi dei coloni si trovano in uno stato di crescente vulnerabilità. L’incendio della moschea aggiunge un ulteriore elemento di instabilità in una zona che ospita decine di migliaia di abitanti in condizioni spesso difficili.


Sul piano geopolitico la vicenda assume un significato che travalica l’ambito locale. Il territorio della Cisgiordania resta centrale nel conflitto israelo-palestinese, e le dinamiche di insediamento, occupazione, violenze dei coloni e restrizioni per la popolazione palestinese vengono costantemente monitorate da osservatori internazionali, organismi per i diritti umani e istituzioni diplomatiche. L’assalto a una moschea costituisce non solo un attacco diretto a un bene materiale ma anche una ferita alla dimensione culturale e religiosa, e richiama l’attenzione sulla difficoltà di perseguire una soluzione duratura basata sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla garanzia dei diritti dei residenti palestinesi. Un incremento di questi episodi rischia di alimentare ulteriormente la radicalizzazione, l’escalation di violenza e l’intensificazione delle tensioni tra comunità. Allo stesso tempo, la politica degli insediamenti, le modalità dei raid dei coloni e la risposta delle autorità israeliane continuano a rappresentare elementi di frizione che ostacolano la prospettiva di riduzione del conflitto.


L’incendio della moschea a Marda (villaggio nei pressi di Salfit) si colloca in una serie più ampia di episodi registrati nell’ultimo periodo, durante i quali le aggressioni dei coloni contro proprietà palestinesi, oliveti, abitazioni e luoghi di culto sono aumentate in modo significativo rispetto agli anni precedenti. Secondo le registrazioni delle organizzazioni umanitarie, i casi di vandalismo e attacchi fisici hanno subito un’impennata in concomitanza con la guerra a Gaza e l’intensificarsi del conflitto nella regione. L’elemento nuovo è la frequenza e la crudezza degli atti, la presenza di escursionisti radicali tra i coloni e l’utilizzo di slogan che rimandano a rivendicazioni ideologiche estreme, in particolare legate all’espansione degli insediamenti israeliani e al controllo del territorio palestinese. Vi è inoltre l’aspetto della percezione di impunità: molti abitanti palestinesi segnalano che la risposta delle autorità è lenta, parziale e raramente conduce a condanne effettive, creando un senso di abbandono e vulnerabilità.


Le ricadute sul piano sociale sono profonde. I residenti del villaggio dovranno far fronte a costi di ricostruzione, alla riduzione della sicurezza percepita, alla modificazione della routine quotidiana e alla necessità di considerare nuove misure di protezione. Il danno percepito non è solo fisico ma anche psicologico: un luogo simbolo della comunità è stato violato, e ciò può generare un effetto di demoralizzazione e un aumento dell’emigrazione interna, oltre a limitare le opportunità di dialogo e convivenza. A livello comunitario, l’attacco rafforza il senso di vulnerabilità e la consapevolezza che la tutela non è garantita, elementi che possono aggravare la disgregazione sociale e la sfiducia nei confronti delle istituzioni responsabili della sicurezza.


La dimensione economica-agricola viene anch’essa toccata: molti villaggi palestinesi dipendono dalla terra, dal raccolto delle olive, dagli uliveti e dalle attività agricole che sovente si svolgono in prossimità delle zone sotto pressione degli insediamenti. Le aggressioni ripetute compromettono la continuità produttiva, riducono l’accesso ai terreni e spingono i contadini a rinunciare alle proprie attività. In questo contesto distruttivo, la perdita della moschea diviene anche un segnale dell’assottigliarsi delle infrastrutture comunitarie che supportano non solo la preghiera ma anche la coesione sociale, l’istruzione e le attività collettive. Il danno all’edificio sacro diviene così rappresentativo di una dinamica più ampia di pressione territoriale e fragilità della comunità.


Le istituzioni palestinesi hanno già annunciato che questa tipologia di attacchi sarà portata all’attenzione internazionale, compresi organismi delle Nazioni Unite, al fine di sollecitare una maggiore vigilanza e azioni concrete per la protezione dei civili nei territori occupati. I rappresentanti della comunità locale chiedono che le autorità israeliane assumano un ruolo più incisivo nel prevenire tali atti, garantendo l’accesso a mezzi di protezione, sorveglianza e che si proceda con indagini trasparenti e rapide. Il contrasto alla violenza dei coloni è indicato come uno degli elementi chiave per evitare un’ulteriore erosione della presenza palestinese nei territori e per contenere le conseguenze umane, sociali ed economiche di una conflittualità in crescita.

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