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Retroscena della caduta di Biden e del fallimento Harris: tensioni, silenzi e caos nel Partito Democratico

Il ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca, annunciato il 21 luglio 2024, ha rappresentato un punto di svolta drammatico nella politica americana. Dietro la decisione ufficiale si nasconde un mosaico di pressioni, silenzi, esitazioni e rivalità interne che hanno condotto il Partito Democratico verso una sconfitta pesante alle presidenziali di novembre. La candidatura di Kamala Harris, annunciata pochi giorni dopo il passo indietro di Biden, non è riuscita a ricompattare il partito né a fermare l’avanzata di Donald Trump, che ha riconquistato la Casa Bianca con un margine elettorale solido.


Il momento cruciale della crisi democratica è stato il dibattito televisivo del 27 giugno 2024. Biden, apparso stanco e disorientato, ha faticato a rispondere alle provocazioni dell’ex presidente Trump, alimentando dubbi sulla sua lucidità e sulle sue capacità cognitive. Secondo quanto riportato da numerosi retroscena interni, diversi membri dello staff elettorale, consiglieri e persino donatori storici hanno avviato una pressione costante affinché il presidente si ritirasse, ma per quasi un mese Biden ha resistito, ribadendo pubblicamente la volontà di correre per un secondo mandato.


All’interno del suo entourage si è progressivamente fatta largo una frattura tra chi voleva proteggere l’immagine del presidente e chi spingeva per una successione rapida. Kamala Harris, da tempo preparata all’eventualità di subentrare, è rimasta per settimane in una posizione ambigua, impossibilitata a muoversi apertamente senza apparire sleale. Quando infine Biden ha annunciato il ritiro a favore della sua vicepresidente, il Partito Democratico ha provato a lanciarsi in una campagna lampo, costruita però senza una strategia coerente e senza un fronte realmente unito.


Il libro “Original Sin”, scritto dai giornalisti Jake Tapper e Alex Thompson, raccoglie testimonianze dirette degli scontri e delle esitazioni avvenute nei mesi precedenti. Tra i passaggi più duri vi sono le dichiarazioni di David Plouffe, già stratega della vittoria di Barack Obama nel 2008, che ha definito il ritardo del presidente “una colpa imperdonabile” e l’organizzazione della candidatura Harris “una fottuta catastrofe”. Altri consiglieri storici, come Ron Klain, si sono detti frustrati dalla mancanza di visione e dalla gestione centralizzata delle decisioni che ha impedito al partito di strutturare un piano di successione credibile.


Kamala Harris ha accettato la candidatura nel caos, tra appelli alla lealtà e manovre parallele per accaparrarsi il posto da vice. Il governatore della California Gavin Newsom, la senatrice Elizabeth Warren e il segretario dei Trasporti Pete Buttigieg sono stati tutti coinvolti, direttamente o indirettamente, in conversazioni sulla possibile “staffetta” al vertice. Il risultato è stata una convention democratica confusa, in cui l’unanimità intorno a Harris è apparsa più formale che sostanziale.


Dal punto di vista della comunicazione, la campagna Harris ha sofferto sin dall’inizio. I consulenti politici più esperti erano stati assorbiti dalla campagna Biden e pochi sono stati trasferiti alla nuova candidata. La raccolta fondi, già in calo dopo il dibattito disastroso di giugno, non ha avuto la ripresa sperata. Alcuni grandi donatori sono rimasti alla finestra, altri si sono spostati su candidati senatoriali o su cause locali. Harris ha fatto scelte difficili, come non cambiare lo staff comunicazione e affidarsi alla macchina organizzativa del DNC, che però ha dimostrato di non essere pronta a gestire un'emergenza di tale portata.


I mesi di campagna sono stati segnati da una crescente polarizzazione: da un lato l’elettorato democratico più progressista, che ha mal digerito l’investitura di Harris percepita come imposta dall’alto; dall’altro, i moderati, poco convinti della sua capacità di battere Trump nei cosiddetti swing states. In stati come Michigan, Arizona e Pennsylvania, i sondaggi hanno iniziato a peggiorare già a fine agosto, e gli interventi tardivi di Barack Obama e Michelle Obama non sono riusciti a invertire la rotta.


L’intera transizione Biden-Harris è avvenuta in assenza di un piano politico condiviso. La decisione di Biden di rimanere in corsa fino a luglio, motivata dal desiderio di non apparire debole di fronte ai repubblicani, ha lasciato il partito con un candidato esposto, vulnerabile e impossibilitato a ritirarsi con sufficiente anticipo. I documenti interni pubblicati dopo le elezioni dimostrano che già da aprile il team legale della Casa Bianca considerava seriamente l’ipotesi di una rinuncia, ma la scelta è stata continuamente rimandata. Quando infine si è concretizzata, era troppo tardi per costruire una candidatura alternativa credibile. La sconfitta di novembre è stata letta da molti come una diretta conseguenza di questa paralisi.

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