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Chi era Mohammad Bagheri, il generale iraniano ucciso da Israele: il cervello militare della Repubblica islamica

La notizia della morte del generale Mohammad Bagheri, figura di vertice nell’apparato militare della Repubblica islamica dell’Iran, ha sollevato un’onda d’urto destinata ad avere ripercussioni ben oltre i confini regionali. Ucciso in un attacco attribuito all’intelligence militare israeliana, Bagheri era considerato uno dei più influenti architetti della strategia di difesa e proiezione esterna del potere iraniano. Capo di Stato maggiore delle forze armate della Repubblica islamica dal 2016, era la mente dietro molte delle recenti riforme militari del Paese e aveva un ruolo centrale nella pianificazione delle operazioni asimmetriche condotte dalle forze iraniane e dalle milizie alleate nel Medio Oriente.


Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore, l’uccisione di Bagheri è avvenuta nell’ambito di una più ampia operazione israeliana volta a colpire obiettivi strategici legati al programma nucleare e missilistico iraniano. L’operazione, condotta con droni o missili di precisione, ha avuto luogo nei pressi di un’installazione militare ad alta sicurezza, considerata punto nevralgico per il coordinamento delle forze Quds e della rete militare dei Pasdaran (IRGC), il corpo d’élite delle forze armate iraniane. La morte di un ufficiale del calibro di Bagheri rappresenta un salto qualitativo nella guerra ombra che da anni oppone Israele e Iran su più teatri, da Gaza al Libano, passando per Siria, Iraq e lo stesso territorio iraniano.


Mohammad Hossein Bagheri, classe 1960, era considerato un fedelissimo della Guida Suprema Ali Khamenei, e la sua carriera militare si era intrecciata fin dagli inizi con le vicende fondamentali della Repubblica islamica. Veterano della guerra Iran-Iraq, era emerso come una delle figure più rispettate per capacità tattica e visione strategica. Laureato in ingegneria e con un dottorato in geografia politica, Bagheri era conosciuto anche per le sue competenze accademiche e il ruolo di insegnante nelle accademie militari iraniane. Tuttavia, è stata la sua azione sul campo e la gestione delle dinamiche regionali a proiettarlo al vertice delle forze armate, in un sistema dove le gerarchie militari si intrecciano strettamente con quelle religiose e politiche.


Bagheri non era soltanto un generale operativo, ma anche il principale coordinatore delle forze armate convenzionali e delle unità speciali dei Pasdaran, incluse le forze Quds guidate fino al 2020 dal generale Qassem Soleimani. Dopo l’uccisione di quest’ultimo in un raid americano a Baghdad, Bagheri aveva assunto una funzione ancora più centrale nel garantire la continuità delle operazioni esterne iraniane in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Era considerato il garante della strategia della “profondità difensiva”, secondo cui la sicurezza dell’Iran si difende proiettando la propria influenza ben oltre i confini nazionali, fino al Mediterraneo.


Nelle sue rare dichiarazioni pubbliche, Bagheri aveva sempre mantenuto un tono duro contro Israele e gli Stati Uniti, definendo entrambi “nemici esistenziali dell’Islam rivoluzionario” e avvertendo che qualsiasi aggressione avrebbe ricevuto “una risposta su larga scala e in più direzioni”. La sua presenza alle cerimonie ufficiali con la Guida Suprema e con i vertici del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale lo rendeva un interlocutore privilegiato per l’establishment, e una delle voci più influenti nelle decisioni che riguardano la difesa, la politica estera e il programma missilistico e nucleare del Paese.


L’eliminazione di Bagheri da parte di Israele, in un’operazione che segue altri attacchi mirati a infrastrutture sensibili e figure chiave del sistema di potere iraniano, rischia ora di innescare una reazione a catena. Le autorità iraniane hanno già fatto sapere che l’uccisione del generale sarà vendicata “duramente e in tempi rapidi”, e che il sangue versato di un comandante così importante “non resterà impunito”. I funerali di Stato si sono svolti a Teheran con una partecipazione imponente e una retorica bellica che ricorda quella seguita all’uccisione di Soleimani. La guida suprema Khamenei ha parlato di “un martire della resistenza che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della nostra Repubblica”, mentre il presidente Raisi ha accusato “il regime sionista” di voler destabilizzare la regione.


L’impatto simbolico della perdita è profondo: Bagheri non era soltanto un comandante militare, ma un punto di riferimento identitario per l’apparato di sicurezza e per la propaganda interna. A differenza di Soleimani, più popolare tra i giovani e l’opinione pubblica, Bagheri era l’uomo dell’apparato, colui che conosceva a fondo la macchina statale, le sue fragilità e i suoi punti di forza. Il suo contributo alla riorganizzazione dell’esercito convenzionale e al coordinamento con i Pasdaran era stato fondamentale per modernizzare il sistema difensivo iraniano, rendendolo meno vulnerabile a infiltrazioni esterne e più agile nelle risposte asimmetriche.


L’assassinio di Bagheri rappresenta dunque non solo una perdita tattica, ma una ferita strategica per il regime iraniano, che potrebbe trovare difficoltà nel sostituirlo in tempi brevi. A Teheran è già partita la corsa alla successione, ma l’equilibrio tra fazioni interne, fedeltà alla Guida Suprema e competenza operativa rende la scelta tutt’altro che semplice. L’incognita riguarda ora la risposta iraniana: sarà una rappresaglia diretta contro Israele o si opterà per azioni indirette tramite le milizie alleate in Libano, Siria, Iraq o persino nel Golfo?


Nel frattempo, la comunità internazionale osserva con apprensione l’evolversi degli eventi. L’ONU ha invitato alla moderazione, mentre la Russia ha espresso “forte preoccupazione per l’ulteriore destabilizzazione della regione”. Gli Stati Uniti, sebbene non coinvolti direttamente, temono attacchi contro le proprie truppe in Iraq e Siria, come già accaduto in passato in situazioni analoghe. Israele, da parte sua, ha innalzato il livello di allerta e rafforzato le difese antimissile nel nord del Paese. La tensione è alle stelle e l’equilibrio precario del Medio Oriente rischia di rompersi definitivamente.

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