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In agricoltura femminile sotto pressione: bassi salari, caporalato e disparità persistenti

Nel comparto agricolo italiano si registrano condizioni di lavoro che penalizzano in modo sistematico le donne, sia dal punto di vista retributivo che dal punto di vista della regolarità occupazionale. Un’indagine condotta da un organismo‐sindacale mette in luce come le lavoratrici regolari siano circa trecentomila e percepiscano una retribuzione inferiore di circa il venticinque per cento rispetto ai colleghi uomini. Si tratta di una forbice retributiva che riflette non solo la segregazione occupazionale, ma anche la frequente assunzione di ruoli a minor valore aggiunto o in condizioni contrattuali più svantaggiate.


La situazione delle donne che operano nei campi o nelle filiere agricole è ulteriormente aggravata dal fenomeno del caporalato e del lavoro irregolare. Le stime più recenti indicano che nel settore agricolo ci siano circa duecentomila lavoratrici e lavoratori in condizioni di irregolarità, pari a circa il trenta per cento del totale. Di queste, si stima che oltre cinquantacinquemila possano essere donne, un dato che evidenzia la vulnerabilità di questa componente della forza lavoro agricola. In molti casi le donne svolgono mansioni stagionali, in settori molto dipendenti dalla mano d’opera manuale, e subiscono condizioni peggiori rispetto agli uomini: retribuzioni inferiori, contratti più precari, maggiore esposizione a condizioni di lavoro gravose e minor tutela contrattuale.


Le cause di queste disparità sono molteplici e interagiscono tra loro. Innanzitutto, la struttura occupazionale del settore agricolo vede una forte presenza femminile in ruoli che tradizionalmente vengono considerati meno valorizzati o meno qualificati, tali da comportare salari più bassi e minori opportunità di sviluppo. Accanto a ciò, persistono forme di sfruttamento del lavoro che colpiscono in modo più marcato le donne: il caporalato, l’intermediazione illecita, la mancanza di regolarità nel contratto, la notevole diffusione della stagionalità e l’assenza di percorsi di avanzamento. In questi contesti, le donne risultano più esposte alla ricattabilità, al lavoro sommerso e a condizioni contrattuali non coerenti con il valore del lavoro svolto.


Dal punto di vista normativo e istituzionale, la legge italiana sul contrasto del caporalato ha introdotto misure importanti, ma la concreta applicazione e il controllo risultano ancora insufficienti. Nonostante l’evoluzione della normativa, il fenomeno resta radicato e la rete di controllo fatica a intercettare tutte le situazioni, soprattutto quelle che riguardano lavoratrici stagionali o in regioni periferiche. Il binomio “bassi salari + lavoro irregolare” costituisce un fattore di esclusione economica e sociale per molte donne del settore, che si trovano a operare in condizioni che rendono difficile il raggiungimento di indipendenza economica, progresso professionale e tutela di diritti.


Le ripercussioni sul tessuto agricolo e sociale sono rilevanti. Prima di tutto, la presenza di un segmento femminile che lavora in condizioni svantaggiate rappresenta una perdita di potenziale produttivo e innovativo per le imprese agricole; la valorizzazione delle competenze femminili e l’accesso a condizioni eque di lavoro potrebbero invece contribuire al rafforzamento della competitività delle filiere. Inoltre, dal punto di vista occupazionale e demografico, la disuguaglianza retributiva e contrattuale impedisce alle donne di fare carriera, di stabilizzare il proprio impiego e di programmare un futuro lavorativo e familiare in sicurezza, alimentando fenomeni di abbandono del lavoro o di inattività in età matura.


In questo contesto, le politiche pubbliche e del lavoro dovrebbero orientarsi verso interventi volti a ridurre il divario retributivo, promuovere la regolarizzazione delle condizioni occupazionali, rafforzare i controlli sul caporalato e incentivare la formazione professionale e il riconoscimento delle competenze femminili in agricoltura. Le imprese agricole possono presentare un ruolo proattivo nel valorizzare la componente femminile del loro organico, rivedendo gli assetti contrattuali, investendo in percorsi di crescita e favorendo l’accesso delle donne a posizioni operative e manageriali. Le istituzioni, dal canto loro, devono consolidare la capacità di monitoraggio, favorire la trasparenza delle filiere e sostenere le imprese che adottano pratiche coraggiose in tema di equità di genere e trasparenza occupazionale.

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