Emigrazione, record negativo per l’Italia e corsa della Spagna: cosa (non) si fa per fermare la grande fuga
- piscitellidaniel
- 28 apr
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Il fenomeno dell’emigrazione italiana continua a rappresentare un problema strutturale per il Paese, registrando numeri sempre più allarmanti. Nel 2024, l’Italia ha visto crescere ulteriormente il numero dei cittadini che scelgono di trasferirsi all’estero, confermando il primato negativo in Europa per l’emigrazione di giovani laureati e personale altamente qualificato. Un fenomeno che ha conseguenze dirette sulla crescita economica, sull’innovazione e sulla competitività del sistema Paese.
Secondo gli ultimi dati ISTAT, circa 157.000 italiani hanno lasciato il Paese nel corso dell'ultimo anno, un incremento del 9% rispetto al 2023. Tra questi, oltre il 42% è costituito da giovani tra i 18 e i 34 anni, con una percentuale significativa di persone in possesso di laurea magistrale o di dottorato di ricerca. La fuga dei cervelli penalizza pesantemente il tessuto produttivo e culturale italiano, già alle prese con un grave problema demografico dovuto al calo delle nascite e all’invecchiamento della popolazione.
Tra le destinazioni preferite degli italiani che emigrano figurano Regno Unito, Germania, Francia e Spagna. In particolare, il caso spagnolo è diventato un modello di attrattività, grazie a una serie di riforme strutturali adottate negli ultimi anni che hanno trasformato il Paese iberico in una delle principali mete europee per lavoratori qualificati. La Spagna, a differenza dell’Italia, ha investito massicciamente su innovazione, digitalizzazione, politiche fiscali favorevoli per start-up e professionisti, oltre che su un sistema di welfare orientato a favorire la mobilità interna ed esterna.
Il governo spagnolo ha lanciato programmi specifici per attrarre giovani talenti stranieri, come il visto per nomadi digitali e incentivi fiscali per i lavoratori rientrati dall’estero. Inoltre, ha promosso una politica attiva del lavoro che favorisce l'incontro tra domanda e offerta di competenze avanzate, puntando sulla formazione continua e su programmi di inserimento rapido nel mercato del lavoro.
In Italia, al contrario, le misure per contrastare la fuga dei cervelli sono rimaste frammentarie e spesso inefficaci. I programmi di rientro dei talenti, come il "Controesodo" e il "Rientro dei Cervelli", pur avendo registrato alcune adesioni, non hanno avuto un impatto sistemico. Le criticità principali sono legate alla burocrazia complessa, alla mancanza di incentivi concreti e a un sistema universitario e di ricerca che fatica a competere con le migliori realtà internazionali.
Il problema dell'emigrazione giovanile si innesta su una struttura produttiva che penalizza il merito e che offre salari mediamente inferiori rispetto ad altri Paesi europei. Secondo il Rapporto Svimez 2024, il salario medio di un laureato under 35 in Italia è inferiore del 30% rispetto alla media europea, con differenze ancora più marcate tra Nord e Sud del Paese.
Una delle conseguenze più gravi della fuga dei cervelli è la perdita di capitale umano in settori strategici come l’ingegneria, l'informatica, la biomedicina e la ricerca scientifica. Questi settori, fondamentali per la competitività futura dell’Italia, si trovano privati delle competenze necessarie per sostenere la transizione tecnologica ed energetica, rallentando l'innovazione e limitando la capacità di attrarre investimenti esteri.
Alcune regioni italiane, come l'Emilia-Romagna e la Lombardia, stanno tentando di mettere in campo politiche locali per trattenere o riportare i giovani. Sono stati lanciati bandi per finanziare start-up innovative, progetti di ricerca applicata e programmi di formazione avanzata, ma senza un coordinamento nazionale queste iniziative rischiano di avere un impatto limitato.
L'assenza di una strategia organica nazionale per contrastare la fuga dei cervelli emerge in modo evidente anche dall'analisi dei fondi europei. Mentre Paesi come la Spagna e la Polonia hanno destinato parte consistente delle risorse del Next Generation EU al rafforzamento del capitale umano e al rientro dei talenti, l'Italia ha privilegiato investimenti infrastrutturali, senza destinare fondi significativi a politiche mirate di valorizzazione delle competenze.
Anche il mondo delle imprese italiane appare spesso poco reattivo. Solo una minoranza delle aziende investe seriamente in formazione continua, in politiche di welfare aziendale e in percorsi di crescita professionale che possano competere con le opportunità offerte all'estero. In assenza di una forte domanda di competenze qualificate, i giovani vedono nelle economie più dinamiche l'unica possibilità di valorizzare il proprio capitale formativo.
In questo scenario, il rischio che l’Italia si avviti in un circolo vizioso di impoverimento demografico, perdita di competenze e declino economico appare sempre più concreto. Se non saranno adottate politiche strutturali e coordinate a livello nazionale, la grande fuga dei giovani rischia di diventare un fenomeno irreversibile, compromettendo le prospettive di crescita e sviluppo del Paese.
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