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Ius scholae, solo il 30% dei minori stranieri ha la cittadinanza: i numeri di una generazione invisibile

In Italia ci sono oltre un milione di minorenni di origine straniera che vivono, studiano, crescono e parlano italiano, ma non sono cittadini italiani. Secondo i dati dell’Istat e dell’ultimo rapporto del Centro studi Idos, aggiornato al 2024, su circa 1,3 milioni di minori residenti con background migratorio, solo il 30% ha ottenuto la cittadinanza. Due su tre sono nati in Italia, ma restano esclusi dal pieno riconoscimento giuridico e identitario. Un quadro che mette al centro della discussione il tema dello Ius scholae, ovvero la possibilità di acquisire la cittadinanza sulla base del percorso scolastico, e che si intreccia con il referendum dell’8 e 9 giugno 2025, destinato a riaprire il confronto sulla riforma della legge 91/1992.


Il dibattito è stato rilanciato dall’incontro “Ius Scholae: tempi nuovi per l’Italia?”, tenutosi presso la Sala della Regina a Montecitorio, dove rappresentanti istituzionali, accademici e associazioni hanno discusso di come superare un impianto normativo giudicato ormai inadeguato. L’attuale legge sulla cittadinanza, infatti, prevede tre vie principali per ottenerla: per naturalizzazione dopo dieci anni di residenza continuativa (cui si aggiungono in media altri 3-4 anni per la conclusione dell’iter burocratico), per trasmissione da genitori divenuti italiani, o per elezione al compimento dei 18 anni, ma solo entro una finestra temporale di 12 mesi. La rigidità di queste norme penalizza in particolare i minori, molti dei quali restano stranieri anche dopo aver completato l’intero ciclo scolastico in Italia.


Nel quinquennio 2019-2023 solo 295.000 minorenni hanno acquisito la cittadinanza italiana, una media di circa 59.000 all’anno. Una cifra che stride con il numero complessivo dei giovani residenti con background migratorio, e che segnala un problema sistemico di inclusione. La ricerca Idos, intitolata “Orizzonti condivisi. L’Italia dei giovani immigrati con background migratorio”, denuncia l’esistenza di una “generazione invisibile”, integrata nei fatti ma priva di riconoscimento formale. Un paradosso che rischia di indebolire il senso di appartenenza e di minare la coesione sociale nel lungo periodo.


Secondo i dati Istat citati nello studio, l’80% dei giovani di origine straniera si sente “anche italiano”, con picchi dell’85% tra chi è nato nel nostro Paese. Tuttavia, solo il 45% di loro prevede di restare in Italia da adulto, mentre il 34% dichiara di voler emigrare altrove. Una perdita potenziale di capitale umano che preoccupa, soprattutto in un contesto demografico in crisi, con una natalità ai minimi storici e un crescente bisogno di giovani formati, dinamici e radicati nel tessuto culturale nazionale.


Il referendum di giugno propone una prima modifica, riducendo da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza continuativa necessario per chiedere la cittadinanza per naturalizzazione. Ma per i promotori, questa non è che una misura parziale. Il vero obiettivo è introdurre lo Ius scholae, ovvero il riconoscimento della cittadinanza a quei minori stranieri che abbiano frequentato per almeno cinque anni un ciclo scolastico in Italia. Una proposta che unisce l’aspetto giuridico a quello culturale, valorizzando il percorso educativo come strumento di integrazione e appartenenza.


Le opposizioni a questa riforma restano forti. I partiti di centrodestra, in particolare Fratelli d’Italia e Lega, continuano a sostenere la centralità dello Ius sanguinis, temendo che un’estensione del diritto di cittadinanza possa trasformarsi in un incentivo all’immigrazione irregolare. Ma secondo Idos e numerosi esperti di diritto e sociologia, questa è una narrazione fuorviante. La proposta di Ius scholae riguarda minori già residenti stabilmente, già inseriti nelle scuole, nei quartieri, nelle comunità locali. Giovani che spesso parlano solo italiano e che vivono da sempre in Italia, pur restando “stranieri” solo per via di un formalismo normativo.


L’argomento è destinato a entrare con forza nella campagna elettorale per le europee, e a mobilitare fasce ampie della popolazione. Molti sindaci, soprattutto nelle grandi città, sostengono la riforma come risposta concreta a un’esigenza di giustizia sociale e di modernizzazione del Paese. Anche numerosi istituti scolastici e associazioni giovanili hanno preso posizione, denunciando l’ipocrisia di un sistema che forma cittadini nei fatti ma nega loro il diritto di partecipare pienamente alla vita democratica.


Il referendum si inserisce in una cornice di trasformazione profonda dell’Italia multiculturale. Le seconde generazioni rappresentano oggi una componente strutturale della società, destinata a crescere nei prossimi anni. Riconoscere i loro diritti significa, per molti, riconoscere il presente e investire nel futuro. Il tema della cittadinanza non è più solo un problema di burocrazia o di appartenenza formale, ma una questione che tocca l’identità collettiva, la tenuta democratica e il modello di Paese che si vuole costruire.

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