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Referendum sulla cittadinanza, flop doppio: affluenza al 22,7%, i Sì poco sopra il 60% e il dibattito politico si polarizza sul significato del risultato

Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025 sulla cittadinanza italiana si è concluso con un doppio fallimento: non solo non è stato raggiunto il quorum necessario del 50% più uno degli aventi diritto, ma anche il risultato netto dei votanti, sebbene favorevole all’abrogazione, non ha raggiunto percentuali travolgenti. Il quesito referendario, sostenuto da +Europa, Radicali, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista e Possibile, mirava a modificare l’attuale disciplina sull’acquisizione della cittadinanza italiana per i cittadini stranieri extracomunitari residenti, riducendo da dieci a cinque anni il tempo minimo di residenza legale necessario per avviare la procedura. L'affluenza definitiva si è fermata al 22,7%: un dato che rappresenta una delle più basse partecipazioni a un referendum nella storia repubblicana italiana.


Dal conteggio dei voti validi, i “Sì”, cioè i favorevoli alla modifica della legge, si sono attestati al 61,4%, mentre i “No” si sono fermati al 38,6%. Percentuali che, in un contesto di alta partecipazione, avrebbero potuto rappresentare un indirizzo politico chiaro, ma che, nel quadro di un’affluenza così bassa, perdono efficacia sia sul piano normativo che su quello simbolico. Nessun effetto giuridico dunque, ma conseguenze politiche che si stanno già manifestando nel dibattito pubblico e istituzionale.


La campagna referendaria, partita con una raccolta firme che aveva mobilitato diverse associazioni e gruppi civici, è cresciuta con fatica anche a causa della scarsa copertura mediatica e dell’assenza di un confronto ampio tra le forze politiche. Alcuni partiti di centrosinistra, tra cui il Partito Democratico, avevano lasciato libertà di voto ai propri elettori, mentre il Movimento 5 Stelle aveva sostenuto il referendum con toni tiepidi. La principale spinta per il “Sì” è arrivata dai promotori civici e da +Europa, che ha guidato la mobilitazione con Riccardo Magi in prima linea. La proposta intendeva ridurre gli ostacoli burocratici e sociali all’integrazione dei cittadini stranieri di lunga residenza, in particolare dei giovani nati o cresciuti in Italia.


L’opposizione, compatta, ha giocato invece sull’astensione. La maggioranza di governo, formata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, ha chiesto esplicitamente ai propri elettori di non recarsi alle urne. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha ritirato le schede elettorali, segnalando in modo inequivocabile la sua posizione. Matteo Salvini ha celebrato l’esito come una vittoria politica, affermando che “la cittadinanza non è un regalo” e chiedendo “norme ancora più severe”. La linea leghista, ribadita anche dal ministro Valditara, è quella di rafforzare i criteri per l’ottenimento della cittadinanza, escludendo qualsiasi ipotesi di “automaticità”.


La discesa sotto la soglia del 23% di partecipazione ha però un significato che travalica la questione della cittadinanza. È il terzo referendum consecutivo (dopo giustizia e cannabis nel 2022) a non raggiungere il quorum, segno di un disaffezione crescente dell’elettorato verso lo strumento referendario. Una dinamica che preoccupa anche in vista delle riforme costituzionali in discussione, che includono una revisione dell’istituto referendario. Molti costituzionalisti e osservatori istituzionali hanno già sollevato dubbi sull’efficacia attuale del referendum abrogativo, troppo vulnerabile all’astensionismo organizzato.


Le reazioni dei promotori, seppur amareggiate, sono all’insegna della volontà di proseguire il percorso in sede parlamentare. Riccardo Magi ha parlato di “una grande battaglia di civiltà che non finisce qui”, denunciando la campagna di boicottaggio e il silenzio istituzionale sul tema. Emma Bonino ha sottolineato come la partecipazione non sia crollata per indifferenza, ma per strategia politica deliberata. Al contrario, esponenti di Fratelli d’Italia e Lega hanno rivendicato il successo del fronte astensionista come dimostrazione di un’Italia contraria a una cittadinanza più accessibile, sottolineando il valore identitario e giuridico dell’attuale normativa.


Nel complesso, il referendum sulla cittadinanza del giugno 2025 si è trasformato in un banco di prova per il sistema politico italiano e per il suo rapporto con la democrazia diretta. Le forze politiche hanno usato lo strumento più come arma retorica che come occasione di dialogo pubblico. Il risultato ha evidenziato un paese profondamente diviso, non solo sulle politiche migratorie e di integrazione, ma anche sulla legittimità stessa del ricorso al voto popolare per decidere temi sensibili e strutturali. Nessuna delle due parti in causa può affermare una vittoria piena: se i promotori non sono riusciti a mobilitare un consenso sufficiente, nemmeno gli avversari possono ignorare i milioni di cittadini che, pur minoritari, si sono recati alle urne e hanno chiesto un cambiamento.

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