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Medio Oriente sempre più instabile, Washington riduce il personale diplomatico: evacuazioni parziali e timori di escalation regionale

Il progressivo deterioramento della sicurezza in Medio Oriente ha spinto gli Stati Uniti ad adottare nuove misure precauzionali per la protezione del proprio personale diplomatico. Il Dipartimento di Stato ha infatti ordinato la riduzione del personale non essenziale nelle sedi diplomatiche americane di diversi Paesi della regione. Un provvedimento che testimonia la crescente preoccupazione per l’evoluzione degli scenari bellici e geopolitici in atto, in particolare dopo il riaccendersi delle tensioni tra Israele e Hezbollah, il moltiplicarsi degli attacchi nei pressi della Striscia di Gaza e l’aumento dell’attività delle milizie filo-iraniane in Iraq, Siria e Libano.


A essere interessati dalle misure restrittive sono in particolare gli avamposti diplomatici in Libano e Iraq, dove l’ambasciata statunitense a Beirut e il consolato generale a Erbil hanno già avviato le procedure di alleggerimento del personale. Anche in Giordania e in Egitto, sebbene al momento in misura più limitata, si stanno predisponendo piani di emergenza per facilitare l’evacuazione del personale non essenziale, qualora la situazione dovesse ulteriormente peggiorare.


Il provvedimento prevede che vengano rimpatriati tutti i funzionari non impegnati in attività operative critiche e i familiari al seguito, al fine di minimizzare l’esposizione al rischio in contesti ad alta instabilità. Le missioni diplomatiche continueranno a essere operative, ma con team più snelli e con un focus prioritario sulla sicurezza, l’intelligence e il monitoraggio delle dinamiche locali.


La decisione si inserisce in un contesto regionale già gravemente compromesso. Gli scontri tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza si sono intensificati negli ultimi giorni, dopo settimane di tregua fragile. L’aviazione israeliana ha colpito obiettivi strategici a Rafah e a Khan Younis, provocando decine di vittime tra i civili e il dispiegamento di nuove truppe di terra nella zona meridionale della Striscia. Allo stesso tempo, il confine nord di Israele è sempre più instabile a causa degli scambi di artiglieria con le milizie sciite libanesi di Hezbollah, sostenute dall’Iran, che hanno colpito postazioni israeliane nel Golan e nella Galilea.

Proprio il Libano rappresenta uno dei punti più critici del dossier mediorientale statunitense. Fonti dell’intelligence americana riferiscono di un rafforzamento delle posizioni militari di Hezbollah nel sud del Paese, in prossimità della Linea Blu, con un conseguente aumento del rischio di escalation. Gli Stati Uniti temono che, in caso di attacco diretto da parte di Israele, si possa innescare un conflitto regionale che coinvolgerebbe non solo Libano e Siria, ma anche l’Iran e i suoi alleati in Iraq e Yemen.


In Iraq, dove restano operativi alcuni contingenti militari americani impegnati nella lotta all’ISIS e nel supporto all’esercito regolare, si registra una recrudescenza di attacchi contro basi statunitensi da parte delle milizie sciite legate a Teheran. A Baghdad e Bassora si sono verificati nelle ultime settimane diversi episodi di razzi e droni esplosivi lanciati contro obiettivi occidentali. Washington ha avviato un rafforzamento dei dispositivi di difesa in tutte le installazioni militari in Medio Oriente, anche tramite lo schieramento di sistemi Patriot e THAAD.


La misura adottata dal Dipartimento di Stato non è solo un gesto simbolico ma un atto concreto di allerta, che si riflette anche sull’approccio delle altre cancellerie occidentali. Il Regno Unito ha aggiornato i propri avvisi di viaggio scoraggiando i viaggi non essenziali in Libano e in Siria. La Germania e la Francia hanno predisposto piani di emergenza per l’eventuale evacuazione del proprio personale diplomatico da Baghdad e Beirut, coordinandosi con le autorità locali e con le forze NATO presenti nella regione.


L’amministrazione Biden, nel frattempo, cerca di mantenere un equilibrio tra il sostegno incondizionato a Israele e l’esigenza di evitare un conflitto allargato. Dopo il recente incontro tra il Segretario di Stato Antony Blinken e i rappresentanti del governo israeliano, la Casa Bianca ha rinnovato l’appello a “misure proporzionate” e ha espresso preoccupazione per le possibili conseguenze umanitarie di un attacco su vasta scala in Libano. Parallelamente, sono stati avviati contatti diplomatici con il Qatar e l’Egitto per tentare una nuova mediazione con Hamas e favorire la riattivazione di corridoi umanitari verso Gaza.


La situazione al confine tra Siria e Iraq resta altamente instabile. Gli attacchi delle forze statunitensi contro milizie iraniane nei pressi di Al Bukamal e Deir Ezzor, ufficialmente giustificati come ritorsione a precedenti atti ostili, hanno generato ulteriori tensioni. Teheran ha minacciato ritorsioni dirette e ha accusato gli Stati Uniti di “alimentare il caos nella regione”. L’Iran, secondo fonti diplomatiche, starebbe inoltre intensificando le sue operazioni cibernetiche nei confronti di obiettivi statunitensi ed europei, in un contesto in cui il cyberspazio diventa terreno parallelo di conflitto.


Le misure di sicurezza predisposte dagli Stati Uniti sono accompagnate da un’intensa attività diplomatica. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato nuovamente convocato per discutere dell’escalation mediorientale, con la richiesta di alcuni membri, in particolare Russia e Cina, di una risoluzione vincolante che imponga il cessate il fuoco immediato a tutte le parti coinvolte. Gli Stati Uniti, tuttavia, hanno mostrato resistenze a ogni iniziativa che possa limitare l’operatività israeliana nella Striscia di Gaza.


Il deterioramento delle condizioni di sicurezza ha già avuto effetti significativi anche sui flussi migratori e sulla situazione umanitaria. L’UNHCR e l’OIM segnalano un aumento delle richieste di asilo da parte di cittadini libanesi, siriani e palestinesi, mentre si teme che un ulteriore allargamento del conflitto possa coinvolgere anche la Giordania e la Cisgiordania, destabilizzando definitivamente l’equilibrio precario su cui si regge l’intera regione. Gli operatori delle principali ONG internazionali stanno lavorando con personale ridotto, spesso in remoto, e con piani di emergenza per l’evacuazione delle aree a rischio.


In questo contesto altamente fluido, la scelta di Washington di ridurre la presenza diplomatica nei Paesi più esposti si presenta come parte di una più ampia strategia di contenimento, finalizzata a proteggere gli interessi americani senza scatenare una reazione a catena irreversibile. Ma gli equilibri si fanno sempre più fragili, e la possibilità che le scintille di queste settimane si trasformino in una conflagrazione su larga scala è ormai considerata da molti osservatori un rischio concreto.

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