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La sostenibilità economica al tempo della guerra e della transizione climatica: tra inflazione, debito pubblico e frattura industriale globale

Nel corso degli ultimi anni, il concetto di sostenibilità economica si è evoluto da principio accademico a elemento strutturale della politica macroeconomica. A rimetterlo al centro dell’agenda pubblica non è stata soltanto la pressione ambientale derivante dai cambiamenti climatici, ma anche la crescente instabilità geopolitica, a partire dalla guerra in Ucraina fino alla nuova competizione strategica tra Cina e Stati Uniti. Gli equilibri economici su scala globale sono stati scossi da eventi convergenti che, insieme, hanno reso più fragile la capacità degli Stati di assicurare crescita, occupazione e bilancio pubblico equilibrato.


La sostenibilità economica, nella sua accezione più concreta, implica la capacità di uno Stato o di un sistema economico di finanziare nel tempo le proprie politiche pubbliche, garantendo stabilità del debito, efficienza dei mercati, tenuta occupazionale e sicurezza sociale. Un equilibrio che oggi è messo alla prova su più fronti. Il conflitto russo-ucraino, che prosegue nel suo terzo anno, ha prodotto effetti a catena sui bilanci statali europei, costretti a rafforzare la spesa militare, sostenere l’Ucraina con aiuti economici e militari, e al contempo proteggere i propri cittadini dalle conseguenze dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi energetici.


Proprio l’inflazione, tornata protagonista dopo oltre un decennio di stagnazione dei prezzi, ha costretto le banche centrali a operare una serie di rialzi nei tassi d’interesse che hanno avuto un impatto diretto sulla sostenibilità del debito pubblico. Paesi ad alto indebitamento come l’Italia, la Grecia e la Francia hanno dovuto affrontare l’aumento del costo del servizio del debito, in una fase in cui le esigenze di spesa pubblica sono cresciute per via delle crisi sovrapposte: pandemia, guerra, caro energia e transizione digitale ed ecologica.


Nel frattempo, i grandi attori economici internazionali si stanno confrontando con una nuova fase di “deglobalizzazione selettiva”, un processo che ha portato al riassetto delle catene del valore, al reshoring e a nuove barriere commerciali. La Cina, impegnata in una crescita sempre più interna e controllata, sta ristrutturando il proprio modello economico, mentre gli Stati Uniti hanno avviato una stagione di investimenti pubblici massicci, dal Chips Act all’Inflation Reduction Act, per stimolare l’industria nazionale e svincolarsi dalla dipendenza produttiva asiatica.


L’Unione Europea, nel contempo, ha reagito con il Green Deal, il piano REPowerEU e il pacchetto Next Generation EU. Tuttavia, l’assenza di una vera unione fiscale e l’indisponibilità politica a creare un debito comune permanente rischiano di compromettere la sostenibilità degli impegni assunti. L’Italia, in particolare, rappresenta un caso emblematico. Con un debito pubblico che supera il 140% del PIL e una crescita tendenzialmente bassa, si trova costretta a navigare tra gli obblighi di consolidamento dei conti pubblici e la necessità di investire in infrastrutture, innovazione e sostenibilità ambientale.


A complicare il quadro c’è la questione della transizione climatica, che non è solo un problema ambientale, ma anche e soprattutto un gigantesco problema economico e industriale. Rendere più sostenibile l’economia richiede investimenti enormi, incentivi pubblici e privati, riconversioni produttive, formazione e innovazione tecnologica. Tutti elementi che comportano costi iniziali rilevanti, in un contesto in cui gli spazi di manovra dei bilanci statali sono sempre più stretti.


Il rischio che si delinea è quello di una polarizzazione sociale crescente tra chi può sostenere i costi della transizione e chi ne subisce gli effetti senza alcun paracadute. Le famiglie a basso reddito, le piccole imprese e le comunità periferiche sono le più esposte agli effetti della trasformazione economica in corso. Per questo, il concetto di sostenibilità economica si intreccia oggi con quello di giustizia sociale e redistribuzione: una transizione che non è equa rischia di diventare anche inefficace, poiché osteggiata politicamente e socialmente.


In parallelo, cresce la pressione per riformare i parametri fiscali europei. Il ritorno del Patto di stabilità, con regole riviste ma pur sempre ispirate alla logica della disciplina di bilancio, impone agli Stati di trovare nuovi equilibri tra investimenti produttivi e contenimento della spesa corrente. In assenza di una cornice federale solida e di strumenti comuni per affrontare crisi globali, l’Europa rischia di vedere aumentare le divergenze tra gli Stati membri, minando la tenuta del progetto comunitario.


Il contesto attuale è quindi caratterizzato da una tensione costante tra esigenze contingenti e obiettivi di medio-lungo periodo. Mantenere sostenibili le finanze pubbliche richiede oggi molto più che rigore contabile: implica capacità politica, visione strategica, credibilità istituzionale e coesione sociale. Le crisi globali del nostro tempo, sanitaria, energetica, climatica, geopolitica, hanno reso evidente che la sostenibilità economica non può più essere misurata solo in termini di deficit e debito, ma va valutata anche sulla base della capacità di uno Stato di garantire resilienza, equità e prospettive di futuro.

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