L’Ucraina al centro della sfida globale: perché gli Stati Uniti non possono permettersi di abbandonarla, secondo Ruslan Stefanov
- piscitellidaniel
- 27 mar
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«Abbandonare l’Ucraina sarebbe una perdita strategica inaccettabile per gli Stati Uniti». Con queste parole Ruslan Stefanov, direttore del Center for the Study of Democracy, riassume il cuore di una visione geopolitica che non riguarda solo il conflitto russo-ucraino ma gli equilibri globali tra potenze. In un’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore, l’esperto bulgaro traccia una mappa chiara del ruolo degli Stati Uniti, delle ambiguità europee e delle aspirazioni revisioniste della Russia, sottolineando come Donald Trump, nonostante le sue posizioni ondivaghe, sia consapevole che cedere su Kiev significherebbe cedere influenza anche a favore della Cina.
L’intervista si inserisce in un momento delicato per la politica estera americana. Mentre i negoziati tra Washington, Kiev e Mosca si intensificano, spesso senza coinvolgimento diretto dell’Europa, emergono dubbi sul reale impegno della nuova amministrazione Trump nella difesa dell’Ucraina. Ma Stefanov chiarisce: anche se l’approccio di Trump è pragmatico e orientato alla “chiusura dei dossier”, un ritiro americano dalla partita ucraina non sarebbe solo una vittoria per Putin, ma soprattutto per Pechino.
La Cina, osserva Stefanov, osserva silenziosamente il conflitto e sostiene la Russia nel tentativo di minare l’ordine internazionale basato sulle regole. Lasciare campo libero a Mosca in Ucraina significherebbe indebolire il sistema multilaterale costruito dagli Stati Uniti dal secondo dopoguerra e ridurre il peso delle democrazie occidentali nell’arena globale. Washington lo sa e agisce di conseguenza, anche se la sua comunicazione pubblica resta spesso opaca o frammentaria.
Nonostante le dichiarazioni altisonanti, gli Stati Uniti continuano a mantenere una presenza militare e diplomatica rilevante nel conflitto. Il generale Keith Kellogg, inviato speciale della Casa Bianca e noto per la sua durezza nei confronti di Mosca, si trova attualmente a Kiev per coordinare con le autorità ucraine le prossime mosse. Parallelamente, i rapporti con l’Europa restano tesi: l’esclusione dell’Unione Europea dai principali tavoli negoziali ha alimentato frustrazione nelle capitali del continente, ma Stefanov sottolinea come sia un riflesso dell’incapacità europea di presentarsi come attore unitario e credibile.
Nel frattempo, Putin continua a spingere sull’acceleratore del confronto militare e strategico. Il leader del Cremlino mira a ristabilire un equilibrio di potere che assegni alla Russia un ruolo paritario con gli Stati Uniti, sfruttando anche la minaccia nucleare come leva diplomatica. Un’illusione pericolosa, secondo Stefanov, che senza il sostegno economico e politico della Cina resterebbe tale. Il vero punto critico, dunque, resta la postura di Pechino: se la Cina decidesse di esercitare pressione su Mosca, le possibilità di una pace negoziata aumenterebbero sensibilmente.
Trump, dal canto suo, potrebbe essere tentato di chiudere la guerra con un accordo che riporti l’Ucraina a una parziale sovranità, ma ogni concessione territoriale a Mosca rischierebbe di minare l’intero impianto della sicurezza europea. Gli Stati Uniti, secondo Stefanov, non possono permettersi una pace al ribasso: significherebbe non solo tradire Kiev, ma aprire la strada a nuove aggressioni, dalla Moldavia ai Paesi baltici.
Il ritorno ai confini pre-invasione del 2022 appare oggi lo scenario minimo accettabile per Washington. Ma la Russia non intende arretrare: Putin ha fatto della Crimea e del Donbass un pilastro della propria narrazione interna, e ogni cessione sarebbe letta come una sconfitta imperdonabile. In questo contesto, le sanzioni restano lo strumento più efficace a disposizione dell’Occidente. Secondo Kellogg, le attuali misure economiche sono efficaci solo al 30% del loro potenziale. Esiste dunque un margine ampio per colpire ancora l’economia russa, in particolare le sue istituzioni finanziarie e il settore energetico.
Il nuovo pacchetto di sanzioni varato a dicembre contro Gazprombank è solo un esempio della strategia americana per aumentare la pressione economica su Mosca senza danneggiare la propria economia interna. Ma non basta: serve anche una risposta europea più incisiva e coordinata.
L’Unione Europea, però, appare ancora divisa. La Germania, gigante economico ma attore geopolitico fragile, è costretta a trovare un equilibrio tra esigenze interne, legami economici con la Cina e l’ombrello di sicurezza offerto dalla NATO. Come ricordava Henry Kissinger, “la Germania è troppo grande per l’Europa, ma troppo piccola per il mondo”: un paradosso che spiega le difficoltà di Berlino a dettare una linea autonoma.
Secondo Stefanov, il futuro dell’Europa passa dalla capacità di rafforzare la propria coesione politica e di dotarsi di una vera capacità di difesa comune. In un mondo multipolare, la sopravvivenza dell’Europa come attore globale dipenderà dalla sua capacità di aggregarsi e presentarsi come interlocutore credibile nei negoziati internazionali. Non solo con Washington, ma anche con Pechino.
La sfida non è solo militare, ma anche economica e tecnologica. La guerra in Ucraina ha accelerato processi già in atto: dalla transizione energetica alla ridefinizione delle catene di approvvigionamento. L’Occidente è chiamato a rispondere con una strategia integrata che tenga insieme sicurezza, competitività e resilienza.
Stefanov conclude sottolineando che, per quanto difficile, abbandonare l’Ucraina non è un’opzione per gli Stati Uniti. Sarebbe un regalo a Mosca e a Pechino. E anche Donald Trump, al netto delle sue retoriche spigolose, lo sa benissimo. L’Ucraina, oggi, è la linea del fronte del nuovo equilibrio globale. E perdere Kiev significherebbe perdere molto di più.
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